Il lavoro potenzialmente utilizzabile o sottoutilizzato

di Giovanni Nazzaro

La Banca Mondiale ha definito l’Unione europea come una “macchina da convergenza” unica al mondo (Rif. “Golden growth – restoring the lustre of the European economic model”, 2012), cioè come lo strumento che definisce obiettivi comuni da raggiungere in un’ottica di lungo periodo. La metafora è abbastanza realistica se si pensa a Europa 2020, che indica i valori da raggiungere nei settori dell’occupazione, ricerca e sviluppo, clima ed energia, istruzione, lotta alla povertà ed emarginazione sociale.
Con riferimento a questi indicatori, a metà del 2014, nelle raccomandazioni specifiche per paese, la Commissione scriveva “la situazione del mercato del lavoro in Italia è ulteriormente peggiorata nel 2013, con un tasso di disoccupazione salito al 12,2% e la disoccupazione giovanile che è arrivata al 40%”. Al di là del caso italiano, l’allontanamento degli indicatori dagli obbiettivi fissati da Europa 2020 è comunque generalizzato in tutti gli Stati membri, e progressivo complici i 7 anni di crisi economica. La Commissione europea ha pertanto indetto una consultazione pubblica chiusa a fine ottobre del 2014 per il riesame della strategia. Staremo in attesa della rimodulazione dei valori, fatto sta che durante questi anni il mercato di casa nostra ha reagito, utilizzando male la forza lavoro in termini quantitativi e qualitativi. Il 17 dicembre 2014 è stato pubblicato il rapporto di monitoraggio sul mercato del lavoro dell’ISFOL, alla sua quarta edizione, che conferma questa considerazione.

Il rapporto descrive gli effetti sul mercato del lavoro dei 7 anni di crisi economica e cerca di evidenziare come le criticità, nate al di fuori della crisi, siano state da questa amplificate. Gran parte dell’attenzione si concentra all’anno 2012, quando si rileva più della metà della perdita di occupazione rispetto al 2008, l’anno dopo dell’inizio della crisi. Se vogliamo, il danno è stato anche contenuto perché il quadro che si è creato in Italia sarebbe potuto essere peggiore se non si fosse ricorso alla diminuzione delle ore mediamente lavorate, alla riduzione dello straordinario, al part time e agli ammortizzatori in deroga.
Si è diffusa ulteriormente l’occupazione temporanea, soprattutto tra i giovani. Sempre tra questi, che dobbiamo ricordare saranno coloro che presto o tardi prenderanno il nostro posto nel mondo del lavoro, aumenta il numero di coloro che non porta a termine il processo di transizione studio-lavoro. Viene così ad aumentare ulteriormente la popolazione dei NEET (Not in Education, Employment or Training), ovvero di quella quota di under 30 privi di occupazione e non inseriti in nessun percorso di istruzione o formativo. Nel 2013 i NEET ammontavano a 2 milioni e 439.000 unità, il 26% dei giovani di quell’età, il doppio rispetto alla Francia e al Regno Unito, il triplo rispetto alla Germania e il quadruplo rispetto all’Olanda.

È andato aumentando il disallineamento tra il livello di istruzione posseduto e il profilo professionale ricoperto, determinando così un incremento degli occupati overeducated, cioè la condizione che caratterizza le persone che si trovano a ricoprire lavori per i quali, generalmente, si richiede un titolo di studio inferiore a quello posseduto. Dall’altra parte il rapporto evidenzia la crescita dei tassi di attività femminili giustificati, probabilmente, dall’aumentato rischio di disoccupazione dei familiari già occupati. Molte donne sono entrate o rientrate nel mercato del lavoro, abbandonando la condizione di inattività. Il rapporto prende in considerazione anche la figura del “disoccupato volontario” che, in senso economico, si riferisce a colui che potrebbe lavorare ma decide di non farlo al salario di mercato.

Tra chi ha perso il proprio lavoro o non l’ha mai trovato, e chi continua a lavorare nonostante la crisi, emerge dal rapporto la figura del lavoratore con forte potenziale non utilizzato che possiamo identificare in colui che potenzialmente è disponibile a lavorare ma non intraprende azioni di ricerca attiva, perché pensa di non riuscire a trovare un lavoro (il c.d. lavoratore scoraggiato), oppure in colui che è costretto a lavorare meno e male. Per comprendere l’importanza di questa figura basti pensare che se si includesse nel calcolo del tasso di disoccupazione anche le forze lavoro potenziali, l’indicatore in Italia raggiungerebbe il 22%, valore che, porrebbe il nostro Paese ben al disopra della media europea a 15 e a 27 Paesi (14,7% e 15, % rispettivamente), avvicinando molto il tasso di disoccupazione italiano a quelli della Spagna e alla Grecia.
L’importanza del lavoro potenzialmente utilizzabile o sottoutilizzato può essere compresa anche attraverso due altri profili. Se aumenta la forza lavoro sottoutilizzata allora vuol dire che il nostro sistema economico sta lavorando su livelli che sono al disotto delle proprie potenzialità. Inoltre, in fase di ripresa quando la crisi terminerà, è ovvio che il mercato di lavoro, a meno di incentivi statali, cercherà di riassorbire proprio questi prima dei disoccupati; maggiore sarà la massa dei lavoratori sottoutilizzati più lunga sarà la fase di ripresa.

In definitiva, va riconosciuto che la crisi è globale e poco possono fare da soli i singoli stati, tra cui il nostro. Pur tuttavia, entro i nostri confini, dovremmo cercare di ridurre la durata dell’inattività del lavoratore o di chi cerca il primo impiego, perché altrimenti verrebbe completamente disperso quel capitale umano accumulato in tanti anni di studio e senza che abbia mai avuto il modo di riscuotere alcun riconoscimento nel mondo lavorativo, e questo rappresenterebbe la più alta perdita umana oltre che economica del nostro Paese. ©

 


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