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RESPONSABILITÀ PENALE DEI MINISTRI DI CULTO: PROBLEMATICHE DE IURE CONDENDO

di Valentina Longo

pdf-icon[dropcaps style=”fancy”]I[/dropcaps]n uno Stato ormai multireligioso e multietnico, quale è l’Italia, molta importanza viene attribuita alla religione e soprattutto molta attenzione viene dedicata da parte di studiosi del diritto ecclesiastico e canonico, (ma non solo), al fine di assicurare un nuovo equilibrio fideistico nel rispetto delle non più derogabili esigenze globali radicate nella società moderna, così come peraltro sancito ufficialmente dal Concilio Vaticano II e dalla Carta Costituzionale in tema di libertà religiosa(1). D’altra parte però non può tralasciarsi un aspetto importante e centrale della religione stessa; in quanto rappresentante della Istituzione Chiesa ed evangelizzatore dei dogmi religiosi, la figura del Ministro di culto costituisce senz’altro una tematica di innegabile attualità in merito alle considerazioni appena esposte.

Da studiosi del diritto, il soggetto “Ministro di culto” in senso giuridico è disciplinato dall’ordinamento civile in combinato disposto alle norme interne dei diversi gruppi confessionali(2). Con specifico riferimento all’organizzazione della Chiesa cattolica, “Ministro di culto” è colui il quale agisce per realizzare la finalità tipica della confessione, essendo insignito dell’ordine sacro, tanto che il suo agire tende a presentarsi come agire della confessione stessa(3), elemento questo che lo differenzia dalla generalità dei fedeli. Appartenere all’ordine sacerdotale, implica però una serie di doveri oltre che di diritti, molto peculiari in ragione del ruolo sacro da esso rivestito.

Essere Ministro di culto non esime dal pericolo di essere coinvolti in un reato, nel quale si può essere sia soggetti attivi che passivi; nel primo caso costituiscono aggravanti l’avere commesso il fatto con abuso di poteri e con violazioni di doveri inerenti la propria funzione(4) ( art. 61, c.9, c.p.). Ma è pur vero che essi in ragione dello status di Ministri di culto, godono di una particolare protezione penale ex art. 403 e ss. c.p. e particolari posizioni processuali, quali ad esempio l’esenzione da alcuni uffici come quello di giudice popolare, per una ovvia ragione di incompatibilità, così come dinanzi ai poteri istruttori dell’autorità giudiziaria ex art. 200 c.p.p., riguardante principalmente il segreto confessionale. Ciò che può apparire poco comprensibile, dando per pacifico la protezione giuridica del segreto confessionale, è la possibilità, e comunque l’obbligo, di poter deporre sui fatti di cui il chierico è a conoscenza e che sono posti, dunque, al di fuori del segreto confessionale.

Il riferimento specifico è quello dell’art. 194 c.p.p. rubricato “ oggetto e limiti della testimonianza”, il quale al comma 1 dispone che “ il testimone è esaminato sui fatti che costituiscono oggetto di prova. Non può deporre sulla moralità dell’imputato, salvo che si tratti di casi specifici idonei a definirne la personalità in relazione al reato e alla pericolosità sociale” ed al comma 3 “ il testimone è esaminato sui fatti determinati. Non può deporre sulle voci correnti nel pubblico né esprimere apprezzamenti personali salvo che sia impossibile scinderli dalla deposizione sui fatti”.

Un esempio si può trarre dai verbali del processo “All Inside”, a tutt’oggi pendente dinanzi al Tribunale Penale di Palmi, e precisamente il verbale nel quale sono contenute le dichiarazioni rese dal parroco di Rosarno che, a proposito di un noto esponente della cosca ‘ndranghetista del luogo e di alcuni affiliati, non ha remore a definirsi loro amico e li giudica come brave persone, quasi fossero immuni da colpe, nonostante le ripetute obiezioni da parte di alcuni legali, del PM e dello stesso Giudice titolare dell’inchiesta che lo invitavano a circoscrivere le proprie dichiarazioni ed a tralasciare ogni apprezzamento personale.

Sta di fatto che non è l’unico caso, altre infatti sono le occasioni in cui nei processi di mafia depongono sacerdoti, i quali si perorano di esprimere opinioni sulla moralità degli imputati, in evidente violazione dell’art. 194 c.p.p., sebbene sia oggettivamente difficile che tali dichiarazioni possano influire positivamente sul giudizio del Giudice, portandolo addirittura a prescindere dal reato commesso. Non può negarsi, tuttavia, che proprio in ragione del margine di discrezionalità di cui gode il Giudice, nei limiti del principio sul libero convincimento, in estremo si potrebbe rischiare che tali giudizi sulla moralità possano influire sino al punto da riconoscere, in extrema ratio, circostanze attenuanti generiche o misure di sicurezza alternative.
Al testimone è fatto divieto di esprimere apprezzamenti personali o valutazioni, ma nella realtà e alla prova dei fatti non è proprio così.

Un aspetto altrettanto curioso è la situazione in cui si viene a trovare il Ministro di culto che accetti donazioni da parte di soggetti ben conosciuti come i mafiosi o comunque notoriamente affiliati al sistema criminale; sebbene non si abbiano prove certe della provenienza di tali offerte, non si può escludere, (pensiamo alle dazioni in denaro), che possano essere il prodotto di attività illecite, ed allora, in questo caso, ci si può domandare come faccia il sacerdote ad accettarle sapendo che probabilmente costituiscono il prezzo di estorsioni, intimidazioni e violenze.

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In realtà, in capo ai sacerdoti è giuridicamente disciplinata la responsabilità che concerne le modalità di esercizio del ministero pastorale ed il reato di favoreggiamento personale ex art. 378 c.p. La questione è altrettanto complessa poiché non sussistono adeguati criteri di bilanciamento tra esigenze di amministrazione della giustizia e doveri morali dei Ministri di culto(5), ove comunque si consideri che il comportamento del sacerdote tout court sia finalizzato alla missione spirituale e religiosa e non si concretizzi in azioni od omissioni poste in essere nella veste di semplice cittadino; non si può tacere che il sacerdote ha, infatti, non solo un dovere ma un vero e proprio obbligo di assistenza verso i fedeli, dettato dalla propria religione.
Bisogna piuttosto soffermarsi su quali siano i limiti che investono tale ministero e se possano integrare gli estremi della fattispecie giuridica in commento così escludendo una loro valutazione discriminante. Tale considerazione sussisterebbe nell’ipotesi in cui la condotta si sostanziasse omettendo di comunicare notizie utili agli organi di polizia giudiziaria, sempre che queste non rientrino nell’alveo della segretezza garantita, anche se avvengono in luoghi e sedi istituzionali ove si svolge la propria professione.

A questo proposito la Suprema Corte ha infatti sancito che deve ravvisarsi l’ipotesi di favoreggiamento personale in tutti i casi in cui venga prestata un’assistenza, anche professionale, in modo diverso da quello normale, che precluderebbe al latitante la possibilità di continuare a sottrarsi alle ricerche, quindi consentendogli di soddisfare le proprie esigenze al contempo sottraendosi all’autorità giudiziaria(6).

Tale statuizione è stata estesa anche alle ipotesi in cui il sacerdote si rechi a celebrare messa nel covo del mafioso latitante, all’uopo fornendogli altarini, banchi e altro, necessari per lo svolgimento della funzione, o a riceverlo in parrocchia; tutto ciò sarebbe sufficiente per costituire fattispecie di reato di favoreggiamento personale, così come avvenuto nel processo intrapreso nei confronti di padre Mario Frittitta presso il Tribunale di Palermo, a carico del quale si contestavano “gli estremi del reato di favoreggiamento personale aggravato nella condotta del sacerdote che celebri Messa nel nascondiglio di un capo mafia latitante, in tal modo consentendo al fuggiasco di soddisfare le proprie esigenze religiose e spirituali senza recarsi in chiesa e quindi senza esporsi al rischio di essere sorpreso dall’autorità di polizia che lo ricerca”, ed inoltre “gli estremi del reato di favoreggiamento personale aggravato nella condotta del sacerdote che, presentandosi spontaneamente innanzi all’autorità di polizia per rendere dichiarazioni in merito al suo possibile coinvolgimento nella latitanza di un noto boss mafioso, si astenga dal rivelare il nome – pur conoscendolo – di chi lo ha condotto presso il rifugio del ricercato”(7), in relazione ai quali avrebbe favorito i boss Pietro Aglieri, Gioacchino Corso e Giovanni Garofalo.

A proposito dell’aspetto squisitamente canonistico, si avverte un possibile problema di applicabilità ed effettività delle sanzioni canoniche, perché il canone 915, riguardo il diniego della comunione stabilisce : “Non siano ammessi alla sacra comunione gli scomunicati e gli interdetti, dopo l’irrogazione o la dichiarazione della pena e gli altri che ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto”(8), e con esso sempre più spesso la Chiesa esprime la propria dissociazione nei confronti dei mafiosi, attraverso pubbliche denunce e scomuniche latae sententiae: ma nella realtà quanto è possibile applicare queste tipologie di sanzioni? Come fa un sacerdote esterno alla comunità locale a riconoscere il soggetto che persevera in peccato grave e manifesto e negargli quindi il sacramento? Sicuramente questo concerne innanzitutto lo stesso fedele e la sua coscienza morale, come previsto dal successivo canone 916, ma l’essere “indegno” perché si è in stato di peccato pone anche un grave problema giuridico nella Chiesa, perché il termine “indegno” richiama al Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, il quale prevede che “siano allontanati dal ricevere la Divina Eucaristia coloro che sono pubblicamente indegni” (Can. 712).

Secondo tale tradizione, infatti, ricevere il Corpo di Cristo pur essendo “indegno” costituisce un danno per la comunione ecclesiale, che attenta ai diritti della Chiesa e di tutti i fedeli, poiché tende alla deformazione delle coscienze, sicché si deve esigere la tutela dei Sacramenti e quindi dell’Eucaristia, affinché venga difesa la moralità cristiana.

Alla luce dei ragionamenti brevemente e genericamente esposti, può emergere l’opinione che sussistano possibili lacune all’interno del sistema normativo canonico, tali da permettere il verificarsi di situazioni che mal si conciliano, evidentemente, con la stessa ragion d’essere dell’Istituzione Chiesa e la sua indimenticabile missione della salus animarum(9). Non sarebbe infatti credibile una Istituzione nella quale i suoi stessi membri non ottemperino a comportamenti di indubbia moralità, che anzi si pongano in situazioni, come quelle suesposte, ambigue, che rischiano di fuorviare le coscienze degli stessi fedeli.
Potrebbe, forse, essere necessario ricostituire un sistema sanzionatorio canonico più severo indirizzato non solo ai Ministri di culto ma anche alla collettività di fedeli, al fine di ristabilire e garantire un bagaglio di valori etico-religiosi duraturi che assicurino alla Chiesa stessa la necessaria serenità, soprattutto in quelle comunità locali ove maggiormente si sente il peso delle mafie che ormai sono radicate nei diversi settori della vita sociale, e nelle quali la Chiesa ha il diritto-dovere di intervenire. ©

NOTE

  1. Cfr. Faustino de Gregorio, La Chiesa cattolica e lo Stato italiano nella società multireligiosa e multietnica del terzo millennio. La strada percorsa e quella da percorrere, Prefazione di Pietro Rescigno, Torino, Giappichelli, 2009, spec. pp. 25 – 148.
  2. Per tutti cfr. Guido Alpa, Manuale di diritto prinvato, Padova, Cedam, 2009, pp. 1314.
  3. Angelo Licastro, I Ministri di culto nell’ordinamento giuridico italiano, Milano, Giuffrè 2005, p. 220 cit.: “Ministro di culto, pertanto è colui che agisce per realizzare la finalità tipica della Confessione, essendo investito, con esclusione degli altri membri del gruppo della totalità o, talvolta, persino di una sola delle attribuzioni apicali di carattere strettamente religioso, tanto che il suo agire tende a presentarsi come agire della Confessione stessa”.
  4. Mario Tedeschi, Manuale di diritto ecclesiastico, Torino, Giappichelli 2004, p. 149.
  5. Angelo Licastro, I Ministri di culto nell’ordinamento giuridico italiano, Milano, Giuffrè 2005, p. 400.
  6. Tribunale Penale di Palermo, ord. 29 ottobre 1997.
  7. Massima a cura de Il Foro Italiano, II, p. 280.
  8. Per peccato grave si intende oggettivamente, in quanto il Ministro non può giudicare sull’imputabilità soggettiva; l’ostinata perseveranza costituisce l’esistenza di una situazione oggettiva di peccato che dura nel tempo ed al quale la volontà del fedele non mette fine; il carattere manifesto è la situazione di abitualità del peccato.
  9. Faustino de Gregorio, Argomenti di Storia e diritto canonico: approfondimenti concettuali di alcuni istituti del diritto canonico e di storia del diritto, Torino, Giappichelli 2006, pp. 10 e ss.. ◊
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