Giuseppe DallozzoIV_MMXIVLeggi e Norme

IL WHISTLEBLOWING NEL PUBBLICO IMPIEGO

di Giuseppe DallOzzo

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Legge 11 agosto 2014, n. 114

Gli strumenti apprestati per favorire l’emersione della illegalità nel pubblico impiego. È davvero sufficiente l’attuale regolamentazione, per come recentemente implementata dalla legge 11.08.2014, n. 114, o sarà sempre necessario il ricorso alla Magistratura per la tutela del whistleblower?

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1- Premessa
L’art. 54 bis del d.lgs. 30.3.2001, n. 165, per come introdotto dalla l. 6.11.2012, n. 190, recante “Disposizioni per la prevenzione e repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”, tutela il dipendente pubblico nel caso in cui, venendo a conoscenza in ragione della attività lavorativa svolta all’interno della amministrazione di appartenenza di situazioni di illecito riconducibili ad altro dipendente della medesima amministrazione, decida di segnalarle.
In tal caso, la vigente normativa garantisce al segnalatore l’attivazione delle previste tutele di riservatezza e la garanzia di non essere sottoposto a sanzioni o misure discriminatorie.

La norma evoca l’istituto del whistleblowing, di derivazione anglosassone, attualizzato nel nostro Paese con l’utilizzo di appositi strumenti tesi a favorire l’emersione di condotte (ritenute dal dipendente) illecite consumate o, quanto meno, perpretatesi e in divenire nell’ambito della pubblica amministrazione.

Anticipando quanto si dirà meglio infra, il dipendente pubblico che abbia contezza di fattispecie delittuose o più genericamente illecite – fatti di corruzione o altri reati contro la P.A., fatti di ritenuto danno erariale o altri illeciti amministrativi – acquisite e conosciute in ragione del proprio rapporto di lavoro alle dipendenze della amministrazione, deve riferirne direttamente alla Autorità Giudiziaria, alla Corte dei Conti, al proprio superiore gerarchico, ovvero agli Uffici all’uopo preposti all’interno di ogni singola amministrazione (strutturati in ossequio alle disposizioni vigenti, alle direttive impartite dal Piano Nazionale Anticorruzione e alle indicazioni del Dipartimento della Funzione Pubblica).
In aggiunta a detti soggetti, la recente l. 11.8.2014, n. 114 (che converte con modificazioni il d.l. 24.6.2014, n. 90, recante “Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari”) ha abilitato a ricevere notizie e segnalazioni di illeciti pervenuti a conoscenza del dipendente, nell’esercizio delle proprie mansioni lavorative, anche l’Autorità Nazionale Anticorruzione e per la Valutazione e la Trasparenza (A.NA.C.), subentrata, per effetto della medesima legge, alla soppressa Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici di Lavori, Servizi e Forniture.

2 – La segnalazione dell’illecito da parte del whistleblower e la tutela del proprio anonimato
Come anticipato, nel caso il dipendente pubblico venga a conoscenza, all’interno del contesto lavorativo di cui fa parte, di reati, violazioni, irregolarità, condotte anche solo potenzialmente causative di nocumento per la pubblica amministrazione, deve riferire quanto acquisito ai soggetti e alle figure indicate al comma 1 dell’art. 54 bis del d.lgs. 30.3.2001, n. 165 e successive modifiche ed integrazioni.
Si osserva come la legge non chiarisca se la segnalazione degli illeciti da parte del pubblico dipendente costituisca per esso un obbligo o una mera facoltà. Né, allo scopo, risulta essere dirimente la lettura combinata dell’art. 54 bis del d.lgs. 30.3.2001, n. 165 in commento con gli artt. 8 e 16 del d.p.r. 16.4.2013, n. 62 (“Codice di comportamento dei dipendenti pubblici”) e con il precetto di cui all’art. 361 c.p. (“Omessa denuncia di reato da parte del pubblico ufficiale”) al quale il dipendente pubblico, qualora rivestisse il ruolo di Pubblico ufficiale ex art. 357 c.p., deve comunque uniformarsi stante l’obbligo di denunzia alla competente Autorità Giudiziaria dei fatti penalmente rilevanti e delle ipotesi di danno erariale dei quali venisse appunto a conoscenza.

Ritenendo corretto, nel silenzio della legge ed in assenza di (auspicabili) arresti giurisprudenziali che facciano luce su un aspetto di assoluto momento, identificare detta segnalazione come un dovere per il dipendente pubblico, si sottolinea che l’istituto giuridico del whistleblowing e, soprattutto, le forme di tutela offerte al segnalatore possano rappresentare, per l’emersione e l’accertamento degli illeciti, uno strumento comunque idoneo a consentirne quella necessaria tempestività in funzione preventiva che il codice e il procedimento penale e contabile, da soli, non hanno potuto né possono oggettivamente garantire.
Posto come la finalità della norma in commento sia quella di (o, quanto meno, tentare di) porre un argine per il superamento dei ben noti fenomeni corruttivi e di illegalità dilaganti all’interno delle amministrazioni, centrali e periferiche, del nostro Paese, prevedendo e prescrivendo, a tal uopo, l’adozione di apposite misure di prevenzione e repressione dei comportamenti illeciti o comunque scorretti, è soltanto con la previsione di precipui strumenti di protezione a tutela della riservatezza del potenziale whistleblower che si può ragionevolmente fidare del fatto che questi, effettivamente, possa dare corso alla segnalazione senza il timore di subire le conseguenze ad esso pregiudizievoli rubricate nel comma 1 dell’art. 54 bis del d.lgs. 30.3.2001, n. 165.

Alle indicazioni operative e alle procedure che ogni singola amministrazione deve obbligatoriamente adottare per consentire al whistleblower la segnalazione “in sicurezza” degli illeciti – procedure inserite nel contesto di quanto previsto in attuazione dell’art. 1, comma 8 della l. 6.11.2012, n. 190, secondo cui ciascuna amministrazione, entro il 31 gennaio di ogni anno, deve obbligatoriamente adottare il Piano triennale di prevenzione della corruzione (PTPC) nel rispetto dei contenuti minimi stabiliti dal Piano nazionale anticorruzione, dal Programma triennale per la trasparenza e l’integrità (PTTI) ex art. 10 d.lgs. 14.3.2013, n. 33 e dal Codice di comportamento di amministrazione ex art. 1, co. 44 della l. 6.11.2012, n. 190 – si aggiungono, infatti, le misure per tutelare la riservatezza del segnalante e la sua esclusione dall’applicazione, da parte della pubblica amministrazione, dei provvedimenti sanzionatori conseguenti alla segnalazione/denuncia, con le eccezioni previste dalla norma.
Dispone il comma 1 dell’art. 54 bis del d.lgs. 30.3.2001, n. 165, per come introdotto dalla l. 6.11.2012, n. 190 e modificato dalla l. 11.8.2014, n. 114: “Fuori dei casi di responsabilità a titolo di calunnia o diffamazione, ovvero per lo stesso titolo ai sensi dell’art. 2043 del codice civile, il pubblico dipendente che denuncia all’autorità giudiziaria o alla Corte dei conti, o all’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), ovvero riferisce al proprio superiore gerarchico condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro, non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto ad una misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia”.

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A parte quindi il caso in cui il whistleblower addebiti ad altri soggetti dipendenti del medesimo Ente pubblico datoriale fatti rivelatisi poi non veri o privi di concretezza, ovvero fatti da cui sarebbe derivato, per il destinatario della segnalazione, un danno ingiusto risarcibile ex art. 2043 c.c., od anche fatti dei quali il whistleblower sia venuto a conoscenza, in via o forma privata, fuori dal contesto lavorativo in cui è occupato (circostanza deducibile, a contrario, dall’inciso contenuto nella norma “…condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro…”), in tutti gli altri casi il dipendente pubblico che denuncia/segnala condotte illecite in essere quanto meno nella loro fase iniziale, non può essere passibile di provvedimenti sanzionatori da parte dell’Ente datoriale, né licenziato, né sottoposto a misure discriminatorie riverberantesi sulle condizioni di lavoro. Da precisare come le norme poste a tutela della salvaguardia del whistleblower non possano valere, ovviamente, nei casi in cui la sua denuncia si riferisca a fatti di evidente natura personale o comunque meramente riconducibili al rapporto di lavoro.

I successivi commi 2, 3 e 4 dell’articolo 54 bis del d.lgs. 30.3.2001, n. 165, tutelano la segretezza della identità del segnalante.
Il comma 2 dispone come detta identità non possa essere rilevata all’autorità disciplinare giudicante e all’incolpato fatta eccezione dei casi in cui:

  • lo stesso “segnalante” abbia prestato, all’uopo, esplicito consenso;
  • la contestazione dell’addebito sia fondata su accertamenti distinti ed ulteriori rispetto alla iniziale segnalazione;
  • la contestazione dell’addebito sia fondata, in tutto o in parte, sulla segnalazione del whistlblower e la conoscenza della propria identità risulti assolutamente indispensabile per la difesa del presunto autore dell’illecito.


Il comma 3 prevede che le eventuali misure discriminatorie o ritorsive che il datore dovesse attivare nei confronti del whistleblower a seguito della denuncia dell’illecito debbano essere segnalate – dallo stesso interessato ovvero dalle Organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative nell’amministrazione dove gli eventi sono stati posti in essere e dei quali i medesimi sindacati sono venuti a conoscenza – al Dipartimento della Funzione Pubblica al fine di adottare tutti i provvedimenti di loro competenza.

Il comma 4, posto a chiusura dell’art. 51 bis del d.lgs. 30.03.2001, n. 165, sottrae la denuncia del whistleblower dal diritto d’accesso previsto dall’art. 22 e seguenti della l. 7 agosto 1990, n. 241 e successive modificazioni.
Fermo restando che quanto previsto a tutela dell’anonimato del whistleblower e della esclusione dall’accesso agli atti non possa essere opposto nel caso di indagini penali, tributarie o amministrative, si osserva come le prefate disposizioni nulla dispongano in ordine alla regolamentazione delle c.d. segnalazioni anonime che, comunque e nel silenzio della legge e dei regolamenti, si ritiene possano essere prese ugualmente in considerazione, al pari di quelle autografe e/o provenienti da dipendenti riconoscibili, a condizione che i fatti e le circostanze di tempo e di luogo denunziate siano dettagliate e contestualizzate così da poter agevolmente risalire all’autore/i dell’asserito illecito denunziato.

3 – La tutela del whistleblower nelle fattispecie “intermedie”. Il contributo della giurisprudenza
Posto come i provvedimenti sanzionatori e le misure discriminatorie sembrerebbero non possano essere adottate nei confronti del whistleblower neanche nel periodo antecedente l’accertamento degli esiti di un esposto, è da chiedersi se la formulazione di mere accuse avanti la Autorità Giudiziaria da parte di un dipendente, possa legittimamente integrare gli estremi di un licenziamento prima ancora che si sia raggiunta la prova della asserita falsità dei fatti rappresentati.

Sul punto la recente giurisprudenza (ex multis, Corte Cass., Sez. Lav., 14.3.2013, n. 6501) ha ravvisato il carattere ritorsivo e discriminatorio nel licenziamento irrogato ad un dipendente pubblico sul presupposto di aver denunziato alla Autorità Giudiziaria fatti di potenziale rilevanza penale senza che la controparte (nel caso di specie della richiamata pronuncia, il datore di lavoro) avesse dimostrato l’intento calunnioso della denunzia o dell’esposto.
La prefata pronuncia della Corte di legittimità ha cassato la sentenza della Corte territoriale (che a sua volta aveva confermato quella di prime cure) per aver erroneamente posto a fondamento della decisione da una parte la lesività, per il datore, della semplice presentazione della denuncia da parte del lavoratore e, dall’altra, l’esonero del medesimo datore dall’onere della prova di smentire il lavoratore e di dimostrare l’intento calunnioso di questi nel presentare la denuncia/esposto.
La Corte di Cassazione ha così fatto chiarezza su una fattispecie che nella pratica può facilmente verificarsi.
Se i fatti illeciti denunciati dal whistleblower non risultano essere stati oggetto di definitiva delibazione giurisdizionale, è illegittima la adozione di qualsivoglia provvedimento datoriale punitivo nei confronti del denunciante.
Diversamente opinando, statuisce la Suprema Corte nella sentenza in commento, “…si correrebbe il rischio di scivolare verso – non voluti ma impliciti – riconoscimenti di una sorta di ‘dovere di omertà’ (ben diverso da quello di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c.) che, ovviamente, non può trovare la benché minima cittadinanza nel nostro ordinamento” (Cass. Lav., cit.).

La Sezione Lavoro del Tribunale Ordinario di Brescia, con sentenza del 15.10.2014, n. 1676, ha affrontato un caso a dir poco paradossale in cui il dipendente, per aver adempiuto al dovere di denunciare un illecito, si è visto costretto a doversi difendere dal proprio datore di lavoro.
Un Comandante della Polizia Locale di un Comune lombardo, nominato responsabile dell’Area Vigilanza per il 2012 e il 2013, aveva prestato la propria collaborazione nell’ambito di una indagine per danno erariale contestato al Sindaco dalla Magistratura contabile.
Lo stesso Comandante aveva altresì segnalato, al competente Ufficio preposto ai procedimenti disciplinari e alla Procura della Repubblica, alcuni comportamenti contrari ai doveri d’ufficio commessi da un Agente in servizio presso la medesima amministrazione pubblica.
La conseguente sanzione disciplinare irrogata dal Comune nei confronti dell’Agente è stata da questi impugnata avanti il Tribunale del Lavoro che, attesa la mancata costituzione nel giudizio del Comune per decisione del Sindaco, l’ha annullata.
Il Comandante non era riconfermato dal Comune nell’incarico di responsabile dell’Area di Vigilanza.
Detta mancata riconferma era disposta senza che fosse fatta alcuna valutazione comparativa tra gli aspiranti alla posizione in questione, giustificandola altresì con la necessità di dare applicazione al criterio della “rotazione” – soprattutto per quel personale che, ricoprendo un ruolo come quello di Comandante della Polizia locale è esposto, in quanto tale e più di altri, a rischio corruzione – quale misura essenziale di contrasto alla corruzione secondo quanto dispone la l. 6.11.2012, n. 190.
La mancata riconferma e gli atti ad esso conseguenti venivano impugnati dal Comandante per violazione (tra gli altri e per quello che qui interessa) dell’art. 54 bis del d.lgs. 30.3.2001, n. 165.
Il Tribunale del Lavoro adito, con la sentenza in commento, ha accolto il ricorso presentato dal Comandante, ravvisando il carattere discriminatorio degli atti adottati dal Comune, stante la loro illegittimità per contrarietà all’art. 54 bis del d.lgs. 30.3.2001, n. 165 e per l’esistenza di caratteri ritorsivi nel comportamento del Sindaco, relativamente alla attività di segnalazione degli illeciti attivata dal Comandante.

Ed infatti, il Tribunale, contestando al Comune la mancata ottemperanza all’onere della prova teso a dimostrare la fondatezza degli addebiti contestati:
ha disatteso l’assunto del Comune relativo all’annullamento del provvedimento disciplinare nei confronti dell’Agente. Detto annullamento era scaturito non dall’accertamento della inconsistenza ed erroneità delle ragioni poste a fondamento della segnalazione del Comandante, ma in conseguenza del fatto che il Comune non si fosse costituito in quel giudizio di impugnazione;
ha ritenuto che il criterio della “rotazione”, posto ad ulteriore fondamento del provvedimento impugnato, fosse palesemente pretestuoso, in quanto il Comandante era Responsabile dell’Area da soli due anni e, quindi, da un periodo non così lungo da far presumere il consolidamento di una pozione di potere privilegiato in capo allo stesso. Oltre al fatto che il Piano Triennale per la Prevenzione della Corruzione, vigente all’epoca dei fatti, non prevedeva alcuna “rotazione” rispetto alla quale, vieppiù, il Comune non aveva in alcun modo valutato le ricadute del mancato rinnovo sulla continuità degli indirizzi e sulle necessarie competenze della struttura.

Ne è così derivata, come detto, la nullità dei provvedimenti impugnati per violazione dell’art. 54 bis del d.lgs. 30.3.2001, n. 165, oltre alla condanna del Comune al risarcimento del danno cagionato al ricorrente per la adozione di provvedimenti riconosciuti discriminatorie lesivi della propria dignità ed immagine, liquidato in via equitativa, e alla rifusione delle spese di giudizio.

4- Brevi considerazioni conclusive
È grazie all’inserimento della norma all’interno degli istituti giuslavoristici vigenti per il settore del pubblico impiego che il whistleblower può ritenersi effettivamente tutelato e protetto allorchè decida di denunciare e/o segnalare un illecito di cui sia venuto a conoscenza.
Le misure e i precetti per la attuazione dell’art. 54 bis del novellato d.lgs. 30.3.2001, n. 165, cui va senza dubbio riconosciuto il merito di contribuire al tentativo di moralizzazione del pubblico impiego funzionale ad una necessaria e non più rinviabile rivoluzione culturale della res publica soprattutto nel presente periodo storico, non bastano ad eliminare le resistenze e i fattori che in passato hanno ostacolato o quanto meno disincentivato il ricorso all’istituto del wistleblowing.

Le sentenze citate dimostrano come gli effetti auspicati dal Legislatore non potranno essere pienamente conseguiti fino a quando gli stessi titolari delle singole amministrazioni pubbliche adotteranno provvedimenti sanzionatori nei confronti del whistleblower senza procedere ad un esame approfondito degli elementi di fatto e di diritto delle fattispecie segnalate.
È quanto meno paradossale che a difendersi da un illecito denunciato o segnalato non sia il suo autore ma lo stesso whistleblower, soprattutto quando risulti pacifica e palese la propria legittimazione e la fondatezza dei contorni della propria segnalazione.
Il presidio offerto dalla Magistratura del Lavoro, si ripete e si sottolinea, è sostanziale all’attuazione della ratio della norma; ancora di più quello garantito dagli stessi titolari degli enti pubblici datoriali e gli uffici di supporto, che dovrebbero essere in possesso delle necessarie competenze giuridiche che, a monte, scongiurino il contenzioso ed evitino, vieppiù, la condanna per danno erariale nel caso di soccombenza nel giudizio e risarcimento del danno liquidato a favore del dipendente. ©


 

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