FOCUSVittorio Capuzza

Intorno alle rationes seminales del regionalismo

Dal decentramento all’autonomia e i nuovi orizzonti delle Regioni ad autonomia differenziata

di Vittorio Capuzza

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  1. Una premessa dall’epoca preunitaria

«Le società odierne, dopo un lungo corso di quindici secoli, sono giunte ad uno stato di effettiva maturità (…) Le leggi amministrative nelle attuali condizioni sociali riguardano la universalità della nazione, e quindi un interesse unico ed indivisibile quale è quello dello Stato, che come una persona sola vuolsi tenere. Nei tempi della vera civiltà l’ordinamento di uno Stato non puossi dir perfetto, se non quando tutte le minori società come le municipali, e le provinciali sieno in guisa tale composte, da potersi compiutamente sviluppare, a seconda de’ propri bisogni, procedendo mai sempre di accordo con la società generale. Ond’è che oggidì fa mestieri di una istituzione sola, per congiungere con principii uniformi le relazioni del cittadino col Comune, e collo Stato, ed accordare gl’interessi comunali e provinciali con quelli più generali della nazione».

Con queste parole, Giuseppe Rocco, Razionale della Gran Corte de’ Conti e professore a Napoli, apriva il suo Corso di dritto [sic] amministrativo del Regno delle due Sicilie, [1] allora recente branca della dottrina giuspubblicistica.

Questa pagina offre oggi almeno due spunti di riflessione: il quadro che emerge in quel Regno e che tuttavia è applicabile come paradigma agli altri Stati preunitari vede la divisione amministrativa nel territorio strutturato sui Comuni e sulle Provincie; i primi, sorti da secoli ed espressione di quel corporativismo che caratterizzò i territori italiani,[2] erano perciò la più antica istituzione; le Province rappresentavano una sorta di organo intermedio e collettore. Quando Giuseppe Rocco scriveva a Napoli le sue lezioni, nelle terre del Regno di Sardegna s’era appena riportata una significativa sconfitta dall’Austria nella Prima guerra d’Indipendenza conclusa con la cd. Pace di Milano (6 agosto 1849) e quel Regno aveva un nuovo Re e un nuovo Governo (dal 7 maggio del ’49) guidato da Massimo d’Azeglio.[3] Vittorio Emanuele II mantenne come modello di struttura territoriale (che resterà per diverso tempo così anche nell’Italia unita) quello Napoleonico del cd. sistema prefettizio, fondato su organi dello stato (i prefetti). Erano subordinati in via gerarchica al Ministro degli interni, ma dotati di amministrazione attiva e di poteri di controllo sui Comuni.[4]

La pagina di Giuseppe Rocco dà spinta a una seconda considerazione: essa testimonia come non è per nulla sottovalutata la questione dei bisogni locali e della necessità oggettiva di mantenere le «minori società» municipali e provinciali, facendole però convergere nella «istituzione sola» dello Stato-persona. Non erano mancate, tra le voci del risorgimento, idee orientate a soluzioni diverse per le quali gli enti locali avrebbero dovuto esprimere una diversa proiezione all’interno dello Stato unitario a cui s’aspirava.

 

  1. Il lento cammino verso il riconoscimento del decentramento locale

Spostiamoci, allora, nel Regno d’Italia, dopo il 17 marzo 1861. Una corrente fortemente democratica spingeva a ridimensionare la centralità dello Stato, nell’ottica del cd. regionalismo.[5] Dunque, la questione non è nuova. La prima tappa del cammino verso l’attualità stava nel riconoscere la convenienza o meno di un decentramento. Mazzini già nel 1831, nello scritto intitolato Dell’unità d’Italia aveva intuito la necessità di creare delle Regioni e nel 1861, riprendendo quell’antico saggio, aveva ribadito che, pur se il principio unitario rimanesse quello sul quale si reggeva la nazione, esso tuttavia non poteva significare accentramento. Perciò, suggerì l’individuazione di un ente intermedio tra i Comuni (di aree omogenee) e lo Stato; questa soluzione, secondo Mazzini «farebbe più semplice e spedito d’assai l’andamento, oggi intricatissimo e lento, della cosa pubblica».[6] Parole che suonano non così lontane da noi.

La soluzione mazziniana sul decentramento trovò concorde Camillo Cavour, che alla guida del Consiglio dei ministri del Regno di Sardegna coordinò col Ministro degli interni Luigi Carlo Farini un progetto di legge, divenuta poi la legge del 24 giugno 1860;[7] venne perciò istituita una Sezione temporanea presso il Consiglio di Stato per lavorare con studi e formulazione di proposte legislative tese alla riforma dell’ordinamento amministrativo dello Stato.[8] Il lavoro teso a garantire un riconoscimento regionale proseguì nello Stato unitario sotto la guida del bolognese Marco Minghetti e l’ausilio di Giuseppe Montanelli; alla Camera vennero presentati quattro progetti di legge: due riguardavano rispettivamente l’amministrazione degli enti locali e i possibili consorzi con privati per causa di pubblica utilità; altri due rappresentavano un importante passo verso il riconoscimento del decentramento, infatti s’erano proposte norme capaci da un lato di regolare la ripartizione del Regno e l’ordinamento delle autorità governative e amministrative, d’altro lato di strutturare una vera e propria amministrazione regionale, mediante il decentramento istituzionale o autarchico. In questa direzione, tale decentramento avrebbe riconosciuto a livello locale una potestà amministrativa e, attraverso l’istituzione di una Commissione eletta dai Consigli provinciali, il potere deliberativo su determinate materie e il potere regolamentare (non normativo in senso proprio) su ambiti in cui la cura del bisogno non poteva che essere locale (ad esempio, in materia di bonifica dei terreni, della disciplina sulla caccia e la pesca).

Gaspare Ambrosini nella Relazione in cui s’illustrava il progetto dell’ordinamento regionale nell’ambito dei lavori dell’Assemblea costituente del 1947– su cui occorrerà tornare a breve – nel ripercorrere questi aspetti storici, commentò con queste parole la soluzione che Minghetti propose: «Nelle Regioni il Minghetti vedeva delle entità naturali, destinate a conservarsi nella loro varietà e a cooperare contemporaneamente in bella armonia all’unità nazionale». Minghetti venne applaudito alle Camere, ma i suoi progetti non vennero approvati.[9] Con la morte di Cavour (6 giugno 1861) s’arenò ogni spinta regionalistica: il Governo del “Barone di ferro”, così era soprannominato Bettino Ricasoli, non s’interessò della questione, mentre in Parlamento l’on. Sebastiano Tecchio presentò il 22 giugno del ’61 una relazione nella quale le regioni venivano viste come un percolo per l’unità d’Italia e una causa del suo sgretolamento: «E mentre l’Italia venivasi con tanta fatica costituendo, non è meraviglia se le genti, gelose dell’opera loro, stessero in apprensione di qualsivoglia scompartimento che per avventura paresse rendere immagine della antiche circoscrizioni politiche».[10] Sostenne quest’ultima impostazione anche Giovanni Battista Giorgini, genero di Alessandro Manzoni perché sposo di Vittoria e deputato parlamentare in quell’anno per il Collegio di Siena, città presso la quale insegnava nella distaccata Facoltà giuridica dell’Università pisana.[11] Il Parlamento accettò questa seconda impostazione e per anni le spinte regionalistiche ebbero solo qualche voce isolata che ne difese la bontà e la convenienza.

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  1. Dal decentramento alle autonomie locali. Primi ideali e primi interventi

Dopo la I Guerra mondiale la questione dei regionalismi riassunse dimensioni significative, soprattutto grazie alla spinta che le diede il partito Popolare Italiano fondato e guidato da don Luigi Sturzo: significativa fu la relazione presentata da quest’ultimo il 23 ottobre 1921 a supporto della proposta di legge del 6 febbraio dell’anno precedente, relativa al potenziamento delle autonomie locali (compariva qui il termine autonomia) e al riconoscimento giuridico della Regioni. Accanto a questo ideale di allargamento, oltre all’emanazione del T.U. della legge Comunale e Provinciale (R.D. 4 febbraio 1915, n. 148) furono adottate nel Regno parallele misure concrete nei confronti delle cd. Terre Redente, per le quali già sussistevano icastiche forme d’autonomia: per Trieste e per Trento s’ebbe la costituzione di rispettivi Commissario civili (R.D. 24 luglio 1919, n. 1251); col il R.D. 8 settembre 1921, n. 1319 per la prima volta s’era postulata la possibilità che nelle “autonomie” regionali s’esplicassero, appunto, anche poteri legislativi delle Diete provinciali. Questi disegni che puntavano dritto a un’autonomia generale valida nel territorio nazionale furono fermati bruscamente con la conquista del potere da parte del regime fascista, tendente, è chiaro, ad un accentramento assoluto. È significativo che tra le primissime mosse del fascismo ci fu, infatti, l’abrogazione dei Commissariati civili a Trento e a Triste: quella cancellazione la operò il R.D. 17 ottobre 1922, n. 1353.

Nel secondo dopoguerra sul progetto delle regioni si riaprono gli sguardi verso l’orizzonte, che sarà raggiunto splendidamente dalla Carta costituzionale della Repubblica Italiana. Le prime mosse, che anticipano la Costituzione e l’attuazione ordinaria del principio regionalistico, sono contrassegnate dalla risposta alle specifiche e imperiose urgenze che s’erano venute a creare in alcuni territori dello Stato; furono tre misure: vennero istituiti altri commissariati per la Sardegna e per la Sicilia, assistiti da una Giunta regionale, poi divenuta Consulta regionale (R.D. 27 gennaio 1944, n. 21, R.D. 16 marzo 1944, n. 90 e R.D. 18 marzo 1944, n. 91); alla Valle d’Aosta, anche per ragioni storiche e geografiche proprie di quella terra di confine e di tutela di particolari, significative minoranze etniche-culturali, venne riconosciuto lo speciale ordinamento (Decreto legislativo Luogotenenziale 7 settembre 1945, n. 545); la Sicilia vide approvato il proprio Statuto speciale (Regio Decreto Luogotenenziale 15 maggio 1946, n. 455).

 

  1. La scelta nella Costituzione della Repubblica. Autonomia amministrativa e legislativa con disciplina uniforme: l’eccezionalità delle (poche) differenze

L’Assemblea costituente, partendo da queste tre realtà sorte per le esigenze immediate dovute all’atroce conflitto bellico, lavorò anche per lo studio e il progetto d’attuazione generale del principio regionalistico nello Stato. L’ideale consisteva nello sbloccare il centralismo, che aveva per di più caratterizzato il regime fascista. Si sa che la Commissione per la Costituzione lavorò attraverso tre Sottocommissioni. La II di queste aveva il compito di lavorare sull’ordinamento costituzionale: era formata da 39 componenti, tra i quali Calamandrei, Codacci Pisanelli, Leone, Mortati. Tra le diverse Relazioni che la II Sottocommissione aveva il compito di redigere a valle dei complessi lavori di studio e discussione per giungere alla redazione del Progetto di Costituzione (testo che venne presentato all’Assemblea costituente il 31 gennaio 1947, con relazione del presidente della Commissione per la Costituzione, Meuccio Ruini), una riguardava proprio la ripartizione territoriale dello Stato e le autonomie regionali. Il testo dell’articolato redatto dal Comitato di redazione per l’autonomia regionale venne accompagnato dalla Relazione di Gaspare Ambrosini aperta da una “Parte generale”, in cui venivano declinati gli aspetti storici sin qui ripercorsi.[12]

Ambrosini richiamava le quattro soluzioni che la Sottocommissione aveva dinnanzi a sé come florilegio dal quale trarre la soluzione regionalistica presentabile poi in Assemblea. La soluzione radicale era rappresentata da un vero e proprio federalismo, dal quale sarebbe derivato uno Stato federale; la maggioranza dei componenti fu decisamente contraria, anche per evitare una netta trasformazione dello Stato: fra questi, Arturo Carlo Jemolo si disse convinto, però, che ormai non vera più possibilità di disintegrare l’unità del Paese perché tale idea di unità «è ormai nel cuore di tutti».[13] La soluzione più blanda era quella di un semplice decentramento burocratico: questa visione avrebbe riportato ai progetti cavouriani sui quali avevano lavorato tra il 1860 e il 1861 Farini e Minghetti; fu bocciata perché oramai insufficiente, alla luce dei cambiamenti storici e culturali. La terza ipotesi risolutiva presentava sempre addentellati con i progetti del Minghetti: si basava sul decentramento autarchico o istituzionale, con il passaggio di alcuni poteri statali alle regioni, intese come enti morali locali; non si trattava, però, di poteri legislativi ma regolamentari. La soluzione ultima, che fu poi adottata, segnava chiaramente e prima di tutto uno sviluppo del concetto-ideale di Regione, la quale veniva ad essere letta come ente di rilevanza costituzionale.[14] Inoltre, la quarta soluzione vedeva riconosciuta alle Regioni la potestà legislativa primaria e di integrazione limitatamente ad alcune materie di interesse locale; intorno alla quantità di minori o maggiori materie da affidare si svolse molto della discussione in seno alla II Sottocommissione: se il numero della materia fosse stato significativamente limitato, con facilità si sarebbe ricaduti nella terza ipotesi, quella del decentramento autarchico. La quarta soluzione venne, dunque, adottata dalla Sottocommissione: con essa venne a determinarsi non più la scelta sul se e sul come attuare un decentramento locale di poteri (amministrativi ed eventualmente regolamentari), bensì il riconoscimento di una vera e propria autonomia con portata costituzionale. Le Regioni, a differenza di altri enti amministrativi, sarebbero state così le uniche a essere (come lo sono tutt’oggi anche se in una cornice aggiornata dal 2001) titolari di potestà legislativa.

Nel Progetto di Costituzione presentata nel gennaio del 1947 all’Assemblea per la successiva discussione, venne presentato, quindi, un articolato nel quale all’art. 114 erano indicati quali organi regionali il Consiglio, la Deputazione e il suo Presidente; il Consiglio regionale avrebbe avuto, ai sensi del successivo art. 115, la potestà legislativa nelle materie di competenza della Regione elencate nell’art. 110 (assistenza ospedaliera, istruzione tecnico-professionale, caccia, biblioteche enti locali, linee automobilistiche locali) e materie a integrazione di quella statale, ex art. 111 (ad es., sanità e istruzione).

 

  1. L’autonomia regionale (potestà legislativa e funzioni amministrative) nella Costituzione

Le Regioni ebbero concreta attuazione solo dal 1970. Si sa come la Costituzione fissò la disciplina negli artt. 116 e 117; in quest’ultimo si confermarono da una parte la struttura della tassativa elencazione delle materie la cui potestà legislativa regionale avrebbe dovuto esprimersi, d’altra parte la residualità del potere statale. Il quadro cambia nel 2001 a opera della Legge costituzionale n. 3, che inverte il vettore, strutturando tre categorie concentriche: elenco della materia di competenza esclusiva dello Stato; elenco delle materie cd. concorrenti con possibilità di avocazione centrale (L. n. 131/2003) in attuazione del principio di sussidiarietà verticale; la competenza regionale per esclusione, con possibilità di attrazione nella competenza statale delle materie cd. trasversali (ad es. istruzione), con limitazione del potere della Regione solo nel rispetto dei principi di proporzionalità e adeguatezza, al fine di garantire ai servizi l’uniformità e la qualità dei livelli minimi. L’autonoma regionale così raggiunta dalla nostra Costituzione è complessa: è costituita dalla potestà legislativa delle Regioni a cui s’aggiungono le funzioni amministrative che la dottrina riconosce esercitabile attraverso cinque modelli. Prima di tutto sta un principio: quello cd. del parallelismo, per cui la Regione ha competenza amministrativa nelle materie nella quali sussista la competenza legislativa. Detto ciò, ai sensi dell’art. 118, comma 2 Cost. la Regione esercita le funzioni amministrative delegandole a Province e Comuni (cd. organizzazione amministrativa indiretta), ovvero valendosi dei loro uffici per determinate funzioni (cd. codipendenza funzionale). In forza dell’art. 117 è possibile che siano costituiti enti amministrativi regionali per tutelare specifici interessi locali; è ammissibile la codipendenza funzionale con organi statali periferici e infine la cd. amministrazione regionale diretta, esercitata nei confronti degli organi fondamentali con i quali la Regione è chiamata ad operare.[15]

 

  1. Elasticità nella visione dei Costituenti circa la tutela dei bisogni locali. Le autonomie speciali

Fu questo il carattere seguito nei lavori della II Sottocommissione e approvato dall’Assemblea: andare incontro alle necessità di un territorio guardando alle loro particolarità talvolta assai marcate da motivi economici, etnico-culturali, storici, di collocazione geografica. In tali casi non poteva non riconoscersi un più ampio, puntuale spettro di poteri in autonomia, che manifestasse la scelta di graduare in modo diverso l’autonomia stessa. Sicché, oltre alla Valle d’Aosta e alla Sicilia (che già erano state riconosciute nella loro specialità), anche la Sardegna e il Trentino-Alto Adige ebbero il riconoscimento di un’autonomia speciale. Per il Friuli-Venezia Giulia nel Progetto della Costituzione presentato all’Assemblea nel gennaio del 1947, all’art. 108 era segnato in nota (1) a pie’ di pagina che «La Commissione si riserva di decidere sull’aggiunta della Regione Friuli-Venezia Giulia alle quattro a cui è attribuita un’autonomia speciale»; diverrà Regione a Statuto speciale nel 1963.[16]

La ratio seguita dai Costituenti è stata allora quella dell’adozione di un carattere elastico aperto alle eccezioni obiettivamente motivate dai caratteri storici, geografici, economici di alcune Regioni, pur confermando la disciplina uniforme delle autonomie locali. In tal senso si potrebbe dire che accanto al riconoscimento dell’autonomia (legislativa con i limiti anzidetti e amministrativa) delle Regioni è stata da subito ritenuta possibile, in via eccezionale, un’autonomia differenziata in capo alle poche Regioni che presentano così uno Statuto speciale. Nella Relazione Ambrosini è affermato chiaramente questo aspetto d’eccezionalità che motiva un’autonomia differenziata: «Non potrà quindi, tenendosi conto della situazione particolare delle quattro Regioni suindicate, che risultare differenziate»; tale deroga è stata valutata come fondata su una iuxta causa storica (tutela minoranze etnico-culturale) e/o geografica (confini o isole) e/o economica, fermo restando che la gradualità possibile – è affermato nella Relazione Ambrosini del 1947 – potrebbe portare «a riorganizzare lo Stato in maniera differenziata e tale da costringere ad abbandonare quel tipo strutturale uniforme»,[17] voluto dalla visione dei Costituenti e ancora oggi garantita anche attraverso le eccezioni che confermano la regola dell’Autonomia uniforme (basata quindi su un sistema misto). Tuttavia, in un’ottica storica e non assolutistica della legge che postula una sua risposta sempre attuale ed efficace, il diritto regionale oggi – dopo la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 – lascia una porta aperta: al comma 3 dell’art. 116 è riconosciuta la possibilità che «Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata».

 

  1. Una nuova prospettiva: il progetto di una legge uniforme per un’autonomia differenziata

È un ossimoro: prevedere uniformemente la possibilità che le Regioni concordino col Governo, attraverso intese che passino infine per la porta della legge parlamentare, delle differenziate autonomie con l’aumento di competenze legislative e quindi amministrative. V’erano state negli ultimi anni diverse spinte che invitavano a guardare a un diverso futuro normativo per le Regioni;[18] s’assiste oggi a un nuovo progetto: estendere di molto quel carattere di elasticità e il gamma del sistema misto (finora sbilanciato sul carattere comunque uniforme dell’autonomia regionale) per rispondere alle inedite e complesse esigenze dell’ora presente; giungere così, attraversando la porta dell’art. 116 Cost., alla possibilità, scritta in una disegnata legge, che l’autonomia sia ampiamente differenziata, anche al di là delle cinque specialità regionali esistenti. S’arriverebbe a portare nella competenza esclusiva delle Regioni (che lo richiedano e l’ottengano mediante le intese) molte o tutte le materia concorrenti (e fino a tre materie di competenza esclusiva dello Stato).

Il disegno di Legge approvato dal Consiglio dei ministri il 15 marzo 2023 e che, acquisito il parere della Conferenza unificata, è stato presentato per l’avvio dell’esame parlamentare al Senato (A.S. 615), porta con sé una visione: rendere possibile, seguendo le relative sequenze procedimentali, che la differenza dell’autonomia da eccezione diventi regola capace di generare un sistema nuovo delle autonomie. Potenzialmente, si intensificano (in profondità) e si estendono (in latitudine) le differenze dell’autonomia legislativa delle Regioni. La tutela piena dei livelli essenziali di prestazioni (cd. LEP) divenuti tali dopo una secolare presa di coscienza del valore dei diritti sociali attraverso il pur lento processo per il loro inserimento sotto le ali protettive della legge; la resistenza del complesso procedimento dell’intesa Stato-Regione intorno alla quale ruota il disegno di legge; i finanziamenti e la compartecipazione della Regione al gettito fiscale da cui potrebbero derivare mancati ingressi statali a beneficio dei relativi bisogni dal carattere uniforme; sono questi tre dei principali cardini della discussione sui quali la disegnata riforma ha iniziato ora il confronto parlamentare.

Il disegno, infatti, non è la realtà, anche se intende riprodurla: ma non è detto che ci riesca sempre bene o significativamente. Per questo, occorre discutere e riflettere in ragione soprattutto di quanto già nel 1914 Alessandro Groppali riconosceva nel diritto, il quale «nella rete infinita delle sue norme comprende e tutela beni ed attività d’ogni genere» e così «nel suo complicato organismo per contraccolpo risente le ripercussioni di tutte le forze che esercitano la loro azione nei singoli dominii di tutti quei fenomeni sociali particolari».[19]

 

(Roma, 03 maggio 2023)

[1] edito a Napoli nel 1850 dalla Stamperia Filantropica; si vedano le pp. 20 e 21.

[2] Nell’ambito comunale le corporazioni erano intese come universitas intorno alle quali tra Cinque e Seicento si sviluppò lo ius universitatum: in esso se ne riconosceva la natura quasi privatistica, la capacità d’amministrazione degli interessi collettivi nella corporazione, i poteri d’ammissione solo mediante cooptazione e scelta di chi ne era già componente, (L. Mannori, B. Sordi, Storia del diritto amministrativo, Roma-Bari 2004, pp. 24 e 25). Fra le varie teorie che si sono sviluppate per spiegare il fenomeno comunale nel medioevo, Francesco Calasso (Gli ordinamenti giuridici del Rinascimento medievale, Milano 1949, pp. 93-105) individuò come causa della nascita dei Comuni la «vasta ondata di spirito associativo che pervase l’intera vita sociale dopo il Mille. Un fenomeno di carattere non solamente sociologico, dato che ad assicurargli valenze tecnico-giuridiche avrebbero provveduto anzitutto quegli statuti associativi che nascevano da patti, ed erano sanzionati da solenne giuramento collettivo», (E. Cortese, Le grandi linee della storia giuridica medievale, Roma 2014, xv ristampa, p. 417).

[3] mentre Cavour iniziava la sua ascesa con l’elezione alla Camera dei deputati.

[4] E. Spagna Musso, Diritto Costituzionale, Padova 1992, p. 399.

[5] Tra i primi scritti sulla storia del regionalismo: C. Vitta, Il regionalismo, Firenze 1923; E. Rotelli, L’avvento della regione in Italia. Dalla Caduta del regime fascista alla Costituzione repubblicana, 1943-1947, Milano 1967.

[6] G. Mazzini, Scritti politici editi ed inediti, II, Imola 1907, p. 334. Si vedano le pp. 302-334.

[7] G. Saredo, La legge sulla amministrazione comunale e provinciale, Torino 1907.

[8] È questa la prima di una serie di identiche previsioni normative che sanciscono (tutt’oggi) la competenza del Consiglio di Stato a formulare progetti di legge richiesti dal Governo: nella L. 20 marzo 1865, n. 2248, allegato D, art. 7, n. 3) si legge che il Consiglio di Stato «Formola quei progetti di legge e i regolamenti che gli vengono commessi dal Governo»; riprendono la disposizione il T.U. 2 giugno 1889, n. 6166, all’art. 10, comma 3 (abrogato poi dal d.P.R. n. 248/2010), il R.D. 17 agosto 1907, n. 638, art. 10, comma 3 (abrogato dal D.Lgs. n. 104/2010), il R.D. 26 giugno 1924, n. 1054, art. 14, n. 2) che è ancora in vigore e in base al quale la L. n. 78/2022, art. 1, comma 4 ha previsto la facoltà che il Governo desse mandato al Consiglio di Stato di redigere lo schema del terzo Codice dei contratti pubblici (emanato di recente, con il D.Lgs. 31 marzo 2023, n. 36).

[9] Commissione per la Costituzione, II Sottocommissione, Relazione del Deputato Ambrosini Gaspare sulle Autonomie Regionali, I. Parte generale, p. 139

[10] Camera dei deputati, Leg. VIII, Sess. 1861, n. 10 A, Rel. Tecchio, p. 6.

[11] G. Dallari, Giovanni Battista Giorgini, Siena 1908; A. Simoni, La vita, l’attività e gli scritti di G.B. Giorgini, Pisa 1926; M. Puccioni, Lettere di Marco Minghetti a Giovanni Battista Giorgini, in Atti della Società Colombaria, XIV (1937-38), pp. 383-396; F. Conti, G. B. Giorgini, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 55 (2001).

[12] Commissione per la Costituzione, II Sottocommissione, Relazione, op. cit., pp. 137-147.

[13] Lo riferisce lo stesso Ambrosini: Commissione per la Costituzione, II Sottocommissione, Relazione, op. cit., pp. 143.

[14] E tale sarà confermata nella Costituzione, negli artt. 114-116, differentemente dalle Province e dai Comuni che ex art. 128 resteranno nell’ambito della legge generale che ne determina le funzioni, (Spagna Musso, Diritto, op. cit., pp. 400 e 401).

[15] Spagna Musso, Diritto, op. cit., pp. 434-436. Si veda anche F. Roversi Monaco, La delegazione amministrativa nel quadro dell’ordinamento regionale, Milano 1970.

[16] I vigenti commi 1 e 2 dell’art. 116 Cost. sanciscono così queste specialità: «Il Friuli Venezia Giulia, la Sardegna, la Sicilia, il Trentino-Alto Adige/Südtirol e la Valle d’Aosta/Vallee d’Aoste dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i rispettivi statuti speciali adottati con legge costituzionale.

La Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol è costituita dalle Province autonome di Trento e di Bolzano».

[17] Commissione per la Costituzione, II Sottocommissione, Relazione, op. cit., pp. 145.

[18] Se veda l’approfondita analisi di A. D’Atena, Tra autonomia e neocentralismo. Verso una nuova stagione del regionalismo italiano?, Torino 2016.

[19] A. Groppali, I fondamenti giuridici del solidarismo, Modena 1914, p. 211, § VI.

 

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