Augusto ZaccarielloDiritto PenitenziarioIII_MMXVI

IL FENOMENO DELLA RADICALIZZAZIONE VIOLENTA E DEL PROSELITISMO IN CARCERE (I PARTE)

di Augusto Zaccariello

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In questo numero: 1. Radicalizzazione e proselitismo, 2. La radicalizzazione violenta.
Nel prossimo numero: 3. Profiling dell’estremista violento, 4. Strumenti preventivi ed investigativi, 5. Osservazione del fenomeno nel contesto penitenziario, 6. Libertà di culto, prevenzione e repressione in carcere.

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1.     Radicalizzazione e proselitismo
La sottile linea che può dividere la legittima pratica religiosa da un possibile fenomeno di radicalizzazione violenta impone un’osservazione anzitutto scevra da condizionamenti e molto particolareggiata. L’adozione di ideologie o orientamenti radicali è, infatti, prima di tutto un processo psicologico che si manifesta con un cambiamento di mentalità che non sempre comporta necessariamente modifiche visibili nell’apparenza o nelle azioni. Solo se ad un cambiamento di mentalità si associa una modifica del comportamento, diventa possibile individuare il rischio di radicalizzazione.

Definire la radicalizzazione non è facile perché è un processo articolato e con molteplici aspetti, che presenta una certa complessità relativamente ai vari fattori condizionanti. In ogni caso la radicalizzazione può essere definita come un processo di evoluzione personale per la quale un individuo adotta idee ed obiettivi politici o politico-religiosi sempre più radicali, con la convinzione che il raggiungimento di tali obiettivi giustifichi i metodi estremi. Tale processo, può indurre un individuo o un gruppo ad accettare, sostenere o incoraggiare l’uso della violenza come mezzo politico-religioso. È un processo dinamico, non necessariamente lineare, che può essere lento e graduale o al contrario manifestarsi in modo repentino ed esplosivo. In alcuni casi generato da influenze esterne, come un leader carismatico o una dinamica di gruppo, in altri può aver luogo come processo interno di auto radicalizzazione, magari scatenata da fattori coinvolgenti come quelli accessibili da Internet, in concomitanza a fattori personali individuali.

In ogni caso, si suole individuare quattro fasi tipiche di radicalizzazione:

  • la pre-radicalizzazione: vi rientrano i meccanismi personali scatenanti, i fattori contestuali che rendono un individuo ricettivo all’estremismo. È il punto di partenza, la condizione individuale e soggettiva da cui si dipana il processo. Qui risiedono le cause sociologiche, collettive e individuali, che predispongono la persona alla vulnerabilità delle narrative radicali.
  • l’identificazione: la fase attraverso cui singoli individui, influenzati da fattori sia esterni sia interni, iniziano a esplorare le narrative radicali, facendoli sempre più allontanare dalle loro identità precedenti, iniziando ad associare se stessi con modelli radicali. Nel sistema penitenziario tale fase si realizza frequentemente per osmosi interna (contatto con altri detenuti radicalizzati, accesso a materiali radicali, etc.), meno frequentemente per influenze esterne (persone esterne che hanno accesso ai carceri quali familiari, volontari etc).
  • l’indottrinamento: la fase nella quale progressivamente i singoli individui intensificano l’approfondimento delle ideologie radicali e concludono che è necessario agire per la causa. I potenziali estremisti cominciano ad alimentare la convinzione che la società sia sbagliata e debba essere cambiata. Mentre le prime due fasi sono processi sostanzialmente individuali, questa implica l’associazione con altre persone, la condivisione delle stesse idee, e diviene un reale indicatore di pericolo. La fase di passaggio tra l’identificazione e l’indottrinamento può manifestarsi in ambito penitenziario con la formazione di piccoli gruppi a base etnica o ideologica che si allontanano dalla maggioranza dei fedeli, formando ad esempio raggruppamenti di preghiera separati. All’interno delle carceri si potrebbe anche verificare l’assegnazione di ruoli, in funzione di rappresentanza della comunità per il contrasto del sistema e dell’organizzazione penitenziaria, il rifiuto delle ispezioni corporali che infrangono i principi islamici dell’onore e della pudicizia, iniziative finalizzate all’affermazione forte delle norme religiose, anche attraverso strutturazioni gerarchiche e forme di leadership.
  • la manifestazione (o jihadizzazione): consiste nell’impegno personale dell’individuo a passare all’azione violenta, allo scopo di promuovere la sua ideologia e di trasformare conseguentemente la società. L’estremismo violento consiste nel promuovere, sostenere o commettere atti che sono finalizzati a difendere un’ideologia che invoca una supremazia razziale, nazionale, etnica o religiosa o che si oppone ai principi ed ai valori fondamentali della democrazia e che possono portare anche alla pianificazione, preparazione e esecuzione di atti terroristici.

In ordine al concetto di terrorismo, è bene dire che non esiste nella comunità internazionale una definizione universalmente recepita. È tuttavia possibile formulare una descrizione basata su osservazioni e considerazioni di natura empirica. Si tratta di una manifestazione di conflittualità caratterizzata dalla violenza criminale, dal fine politico-religioso, dalla clandestinità, la cui azione può essere portata avanti da parte di aggregazioni non statali ma anche compiuta da un singolo individuo, cd. “lupi solitari”.
Il processo di diffusione delle idee radicali, che avviene attraverso il c.d. proselitismo o indottrinamento ideologico, può non sfociare nell’estremismo violento e manifestarsi in una delle forme del Jihad.
Il Jihad è una parola araba che significa “esercitare il massimo sforzo”, a tale parola vengono dati un ampio spettro di significati, dalla lotta spirituale interiore per attingere una perfetta fede, fino alla guerra santa. Per gli estremisti il jihad è diventata la lotta politica e militare contro il predominio, non solo economico ma anche culturale, dell’occidente. La minaccia jihadista è rappresentata dalla convinzione che la violenza debba associarsi al terrore. Essa teorizza infatti l’uso del terrore, l’alto numero delle vittime e la spettacolarizzazione delle distruzioni di massa come una parte essenziale della propria strategia.

2.     La radicalizzazione violenta
È stato già sottolineato come sia difficoltoso, soprattutto per le persone senza specifica formazione, distinguere tra la pratica religiosa legittima e quella istigatrice che porta alla violenza. Difatti, pur essendo la pratica religiosa un diritto costituzionalmente garantito nel nostro Paese, negli istituti penitenziari la radicalizzazione può essere agevolata dal fatto che le sale preghiere sono di fatto un luogo di socialità, utilizzabile per trasmettere messaggi e diffondere ideologie. È inoltre frequente che, in mancanza di un ministro di culto ufficiale, l’assenza sia compensata dagli stessi detenuti, i quali potrebbero trasmettere interpretazioni distorte dei principi della religione interessata.
In questo contesto, anche in presenza di una particolareggiata sorveglianza del personale di Polizia penitenziaria, le barriere linguistiche e la mancanza di conoscenze culturali a volte rendono più difficoltosa l’individuazione di comportamenti sospetti. Fondamentale risulta, in proposito, la corretta formazione del personale del Corpo di Polizia penitenziaria, che si trova a svolgere il quotidiano e delicatissimo compito di attenzionare la numerosa popolazione detenuta di fede musulmana.

La stessa comunità europea ha più volte ribadito la necessità di formazioni specializzate per il personale penitenziario (cfr. Manuale sulla radicalizzazione violenta- – Commissione europea 2008, Raccomandazione del Comitato dei Ministri del 10 ottobre 2012 e Risoluzione del Parlamento europeo del 25 novembre 2015). Per rendere più incisivo e capillare il contrasto al fenomeno sono stati predisposti dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria specifici moduli di formazione a partire dal 2005 e tutt’ora in atto. Attività di coordinamento, supporto ed informazione, vengono inoltre quotidianamente fornite dal Nucleo Investigativo Centrale del Corpo di Polizia Penitenziaria che si occupa dello studio, della raccolta, dell’elaborazione e dell’analisi dei dati forniti dalle singole strutture penitenziarie. In tale ottica, al fine di dotare gli Istituti di ulteriori spunti di riflessione, sono state fornite una serie di informazioni denominate “indicatori sulla radicalizzazione” che consentono di rilevare situazioni meritevoli di attenzione, come i cambiamenti fisici (modo di vestire, crescita della barba, etc) oppure comportamentali (intensificazione della preghiera, ostilità nei confronti del personale, etc.).

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Questi elementi costituiscono dei validi strumenti conoscitivi e concorrono nella definizione del profilo personologico del detenuto potenzialmente esposto ad una azione di indottrinamento ideologico. Tali indicatori, estrapolati dal manuale denominato “Violent Radicalization – Recognition of and Responses to the Phenomenon by Professional Groups Concerned” ( elaborati sulla falsariga del modello sviluppato dal New York City Departement ), sono stati realizzati dagli Stati Membri dell’Unione Europea, nell’ambito di un progetto contro la radicalizzazione (Manuale sulla radicalizzazione violenta – Commissione europea – Direzione Generale della Giustizia, Libertà e Sicurezza, 2008), e celermente adattati alla realtà penitenziaria italiana. Sostanzialmente, si tratta di elementi quali: la pratica religiosa, la routine quotidiana, l’organizzazione della stanza detentiva, il comportamento con le altre persone ed il commento sugli eventi politici e di attualità.

L’esperienza maturata nello studio di tale fenomeno ha evidenziato che i comportamenti tipici dei soggetti radicalizzati sono quelli di sfidare o comunque non riconoscere le autorità, evitare la vicinanza di detenuti non aventi la stessa fede religiosa e soprattutto rifiutarne categoricamente la condivisione della camera detentiva, esporre simboli di gruppi terroristici (foto di bandiere o di combattenti, esecuzioni, etc.), esultare in occasione di calamità naturali nei paesi occidentali, o per attentati effettuati da gruppi terroristici, ecc. Inoltre, tra i fattori che possono concorrere alla radicalizzazione violenta di un detenuto sono importanti: la presenza di un indottrinatore, la percezione di essere discriminati dal personale, magari in occasione del non accoglimento di eventuali richieste, e ancora, il verificarsi di fattori scatenanti esterni quali un lutto, un evento internazionale percepito come negativo.
Naturalmente nessuno degli indicatori e/o fattori elencati costituisce una prova di effettiva radicalizzazione. Essi non devono essere presi in considerazione in modo isolato, ma nel contesto di caratteristiche personali e di specifiche circostanze di un dato caso, al fine di non giungere a conclusioni arbitrarie. La loro presenza deve indurre a un’osservazione continua, attenta e differenziata, oltre a costituire input per il personale di Polizia Penitenziaria a focalizzare un più elevato livello di monitoraggio.

Risulta, invece, più ostica l’individuazione dei soggetti in cui il processo psicologico della radicalizzazione non comporta, insieme al cambiamento di mentalità, anche modifiche visibili nell’apparenza o nelle azioni; ovvero dei cd. “radicali nascosti”, coloro che già radicalizzati tendono a dissimulare gli atteggiamenti sopra riportati. In particolare, un detenuto radicalizzato potrebbe non creare alcun problema per la sicurezza e l’ordine dell’istituto. Non è inusuale che tenda a rispettare le regole mascherando la propria attività. Questi soggetti possono comunque emergere per la loro caratura carismatica. In genere si tratta di soggetti che non partecipano ai meccanismi del gruppo, sembrano estraniarsi dalle loro dinamiche, non partecipando ad alcun suo meccanismo, eppure godono di un alto grado di autorità tra i compagni, in caso di conflitto spesso ci si rivolge a loro per l’arbitraggio o anche per consiglio. ©

 


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