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Eccesso di potere e abuso d’ufficio: lontananza fra illegittimità e reato

di Vittorio Capuzza

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  1. Significati variabili

Nella nomenclatura giuridica i significanti ‘abuso’ ed ‘eccesso’ spesso entrano in dialettica dando vita a significati diversi, comunque mai sovrapponibili nella sinonimia. Si consideri ciò che immediatamente s’affaccia alla memoria di ogni giurista al pronunciare i due significanti: all’abuso del diritto di proprietà, all’abuso della posizione dominante come antitesi alla concorrenzialità, all’abuso nell’esecuzione del contratto, all’abuso del potere di rappresentanza (artt. 1394 e 1395 c.c.), all’abuso di potere inteso come circostanza aggravante nell’art. 61, n. 9 c.p. (l’aver commesso il fatto con abuso dei poteri, o con violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio).

Allora occorre strutturare queste varianti dei significati lungo un binomio capace di inquadrarne la rispettiva linea vettoriale: sviamento e straripamento sono i due vocaboli utili a questo parallelismo. Si ha sviamento, cioè deviazione dai fini propri del diritto, del potere o dell’attività pre-determinati dalla legge, nei seguenti casi: nell’abuso del diritto di proprietà (che finisce in molestia), nell’abuso mediante la fattuale pratica monopolistica, dell’abuso nel contratto (che viola la buona fede), nell’abuso di potere per infedeltà del rappresentante. Si ha straripamento, cioè una fuoriuscita verticale che non guarda più allo scopo (falsato), ma a ciò che è oltre la stessa norma, nei casi di aggravante penale e nel caso in cui nell’esercizio dei poteri di rappresentanza si realizzi un’attività che vada oltre il confine del conferimento.

 

  1. Ampliamento nella sfera amministrativistica del significato di ‘eccesso’ rapportato al potere

In questa dialettica semantica tra sviamento e straripamento rientrano a pieno titolo sia l’abuso d’ufficio (art. 323 c.p.) che l’eccesso di potere. Prendiamo le mosse da quest’ultimo, che vive nella sfera amministrativistica.

La locuzione eccesso di potere all’origine è connessa all’idea dello straripamento: è utilizzata dalla legislazione illuministica francese per indicare il rischio – quindi gestito dalla legge – che i poteri dello Stato travalichino l’uno sull’altro; così è recepito, nel periodo rivoluzionario, nella L. Cost. del 1791. Nell’Italia unita la cd. Legge sui conflitti d’attribuzione (L. n. 3761 del 1877), aggancia un altro piano alla locuzione, sempre assumendo a denominatore il concetto di straripamento di potere: l’intende, però, come difetto d’attribuzione e sancisce la competenza a dirimerne eventuali casi alla Corte di Cassazione; è l’archetipo dell’attuale art. 110 c.p.a. nel quale s’ammette un terzo grado: il ricorso per Cassazione è promovibile contro le sentenze del Consiglio di Stato per i soli motivi inerenti alla giurisdizione. Tale resta la rete logico-legale quando la L. n. 5992 del 1889 istituisce la IV Sezione del Consiglio di Stato, il quale però con la propria giurisprudenza innovativa genera da lì a poco un terzo livello che inquadra in modo diverso l’eccesso di potere: la decisione del 7 gennaio 1892, n. 3, presieduta da Silvio Spaventa, apre la porta alla lettura secondo la quale l’eccesso vada considerato sul piano della invalidità/annullamento/illegittimità[1] per sviamento, consistente nella «contrarietà allo spirito della legge». Un commento di Codacci Pisanelli dà la giusta eco a questa linea che si sgancia dalla mera esegesi del testo legale.[2] Questo vizio di legittimità del provvedimento amministrativo inteso come sviamento dalle finalità previste dalla legge che ha attribuito alla P.A. quel potere, giunge sino ai nostri giorni, corroborato dalla forza pretoria che nei decenni lo ha consolidato[3] e dalla previsione positiva sancita nel comma 1 dell’art. 21-octies della L. n. 241/1990. In questa stessa legge, altresì, è indicato come il concetto di straripamento di potere da parte della pubblica amministrazione finisce per determinare una causa di illiceità dell’atto medesimo: l’art. 21-septies prevede tra le ipotesi di nullità quella del provvedimento «viziato da difetto assoluto di attribuzione», cioè dell’atto prodotto in mancanza di norme di relazione.[4]

 

  1. La ridotta sfera d’applicabilità dell’abuso d’ufficio e la conseguente maggiore ampiezza dell’eccesso di potere, viziante l’azione amministrativa

Si sa che in quanto vizio di legittimità dell’atto o del provvedimento amministrativo l’eccesso di potere è stato definito dagli interpreti come vizio della funzione amministrativa,[5] intendendo così considerare la rilevanza dell’intera sequenza procedimentale, soprattutto le fasi dell’istruttoria e della decisione. In ogni modo, qualunque classe definitoria si voglia seguire, s’ha a che fare con la discrezionalità della pubblica amministrazione, esercitata in modo da determinare uno sviamento rispetto al fine posto dalla norma attributiva di potere; dunque, un falso scopo, viziante d’illegittimità l’atto stesso.[6] Inoltre, visto dal versante della giurisdizione e della sindacabilità del giudice amministrativo, l’eccesso di potere è identificabile in quella sede per il ‘modo’ col quale l’amministrazione ha esercitato il potere attribuitole dalla legge; dunque, misurando dell’atto la conformità alla legge o al regolamento. In questo preambolo sono comparsi i due termini che segnano la separazione dell’eccesso di potere dall’abuso d’ufficio: discrezionalità, regolamento. Sono due termini che nella triangolazione delle novità operate nella fattispecie penale dell’abuso d’ufficio non rientrano più. Infatti, nella vigente formulazione di quel reato, ritagliata dall’art. 23 del D.L. n. 76/2020 (conv. con L. n. 120/2020), mentre restano pressocché analoghe la dolosità intenzionale, la clausola di riserva, la natura di reato proprio e la struttura di reato d’evento (da cui s’evince la linea dello sviamento), la novella ha agito nell’ambito della ‘forma libera’ che caratterizza il delitto in parola: omissione d’astensione (che resta tal quale), ovvero violazione specifica di regole di condotta / previste da legge o da atto avente forza di legge / senza che discendano da tali norme (specifiche e primarie) margini di discrezionalità (nemmeno residuale). Prima dell’intervento che ha di fatto comportato una parziale abolitio criminis, si leggeva nel testo vigente dal 1997 che la violazione poteva riguardare regole fissate da legge o da regolamento. Dunque, dall’estate del 2020 non valgono a configurare il reato d’abuso d’ufficio né le regole che lascino discrezionalità (Cass. pen., sez. V, 28 dicembre 2020, 37517) amministrativa (Cass. pen., sez. VI, 8/1/2021, n. 442) o tecnica (Cass. pen., sez. VI, 15/4/2021, n. 14214), né regole astratte e generali (sulla questione dell’art. 97 Cost. s’è pronunciata la Corte Cost. con la sentenza n. 8 del 2022), né ancora precetti contenuti in regolamenti. Da qui, una facile constatazione: l’eccesso di potere inteso come vizio di legittimità del provvedimento amministrativo ha quasi spezzato i lacci che talvolta lo hanno fin troppo relegato nella schiacciante figura dell’abuso d’ufficio; parallelamente, per configurarsi ormai indipendentemente dal reato (in cui prima veniva anche facilmente proiettato), l’eccesso di potere vede la propria sfera d’autonoma più ampia, d’incontrastata valenza: lo sviamento dal fine attribuito dalla norma si fonda sull’esercizio della discrezionalità (ora non più sindacabile tout court ai fini della misurazione della temperatura del diritto penale) e il fine può essere stato attribuito all’amministrazione da una fonte non primaria, contenuta in regolamento. Eccesso di potere, dunque, non più come residuale rispetto all’abuso d’ufficio, ma del tutto autonomo e solitario. Tuttavia, due nervature restano scoperte, quasi come ultime smagliature che tentano di tenere unite le parti della stoffa: riguardano la materia delle possibili violazioni rilevanti e le ha individuate la giurisprudenza della Cassazione in due casi, il primo strutturato su logica, il secondo indicato per saltum, cioè quasi plasmando il tenore della lettera dell’art. 323 c.p..

Logica appare l’idoneità a configurare l’abuso d’ufficio, così come ora vigente, la violazione della specifica norma regolamentare che intenda declinare tecnicamente il precetto di condotta già definito dal precetto primario: è il caso esemplare del permesso di costruire in materia edilizia; questa funzione di interposizione della norma regolamentare opera rispetto a un precetto che, però, non deve aver bisogno della fonte sub-primaria per raggiungere compiutezza, tassatività e tipicità (Cass. pen., sez. VI, 8/9/2021, n. 33240). In questi casi, ferma restando l’assenza di margini di discrezionalità nel tenore del precetto, rileverebbe ai fini dell’abuso d’ufficio anche la violazione di una norma interposta contenuta in un regolamento.

Lawful Interception per gli Operatori di Tlc

Un po’ creativa, invece, sembra la ricostruzione per cui le azioni compiute con intenti discriminatori o ritorsivi, intesi come connotato dell’imparzialità sancita dall’art. 97 Cost. hanno diretta rilevanza (Cass. pen., sez. I, 18/1/2022, n. 2080): infatti, tali precetti hanno immediata applicabilità senza bisogno d’intermediazione di legge; sono già legge; sì – verrebbe da ribattere all’interprete -, senza tuttavia che il precetto discendente senza mediazioni dalla Carta presenti, per l’appunto, il carattere di specificità che comunque la littera legis penale chiede espressamente. Questo il dettato della pronuncia della Suprema Corte dal quale può partire il percorso del seguente sillogismo: nel considerare la disparità di trattamento (a tanto andrebbe ricondotto l’atto discriminatorio) come figura sintomatica dell’eccesso di potere, oppure l’ingiustizia manifesta (in essa verrebbe attratto l’atto ritorsivo), allora l’eventuale atto amministrativo (non discrezionale) compiuto con intenti discriminatori o ritorsivi configurerebbe illecito penalmente rilevante come abuso d’ufficio per effetto diretto dell’art. 97 della Costituzione. Fatta salva, ovviamente, la clausola di riserva. Rimane la ‘discrezionalità’ a fungere da diga, a tenere separati (senza eccezioni rispetto alla lettera della legge scritta e quanto più è possibile) il vizio di legittimità dell’eccesso dalla figura penale ex art. 323 c.p.. Finora la giurisprudenza non ha percorso rivoli capaci di infiltrarsi tra le fessure della discrezionalità.

 

  1. Le ragioni di una separazione

Andava certo limata la potenziale contiguità fra l’eccesso di potere-vizio di legittimità e l’abuso d’ufficio-reato, anche in ragione del sindacato del giudico ordinario in sede penale sulle scelte discrezionali compiute dall’amministrazione pubblica tramite i suoi dipendenti. È anche vero che andava regolamentata – e ancora deve esserlo e di molto – la cd. paura della firma,[7] che spinge alla ‘burocrazia difensiva’. Non occorre tuttavia esagerare con questa sorta di epitaffi, lasciandoli per di più sospesi tra le nuvole della retorica; allora scendiamo nell’analisi delle possibili ragioni che meritano una cura adeguata.

Il timore di procedere può avere diverse cause, due sono quelle immediatamente postulabili: mancanza di conoscenza professionale e quindi necessità di un’adeguata formazione (culmine e fonte di un’efficace ed efficiente organizzazione dell’ente pubblico, sul modello aziendale da cui si possono trarre diversi spunti per ammodernare davvero la P.A.); esistenza di una disciplina normativa non chiara, farraginosa, complicata, indeterminata nelle punte dispositive, sintatticamente involuta, confusa sin dall’intitolazione normativa che con impronta spettrografica getta modifiche sui vari campi dell’ordinamento e in mille materie eterogenee.

Per quanto riguarda la formazione c’è da dire che le prescrizioni stanno diventando sempre più incisive: tutto sta a dar loro sostanziale attuazione, al di là del mero rispetto formale del ‘dover fare’.[8] Questo fondamento da cui si sviluppa la ratio formativa porta con sé la possibilità che un’amministrazione pubblica concentri le proprie energie in vista degli effettivi risultati, non già nello studio legale delle soluzioni possibili e declinabili dal dettato normativo, spesso nebuloso e fonte d’incertezza. Da qui, l’unità di risposta ai due problemi (necessità di una conoscenza professionale sempre più adeguata e burocrazia difensiva): il principio del risultato, come il novello Codice dei contratti pubblici nell’art. 1ha fissato come principio generale (di materia ma estensibile a tutto il diritto amministrativo); al comma 4 infatti viene precisamente inquadrato il punto di prospettiva a cui deve tendere la diuturna attività amministrativa: il principio del risultato «è criterio prioritario per l’esercizio del potere discrezionale e per l’individuazione della regola del caso concreato».

Ancora una glossa con riferimento alla necessità del rimedio testuale della legge, dalla cui imprecisione anche lessicale scaturisce la paura dell’errore punibile e giudicabile (prima del 2020) penalmente per un’errata scelta discrezionale. Semplificare la normativa: sì; ma anche qui non basta affermarlo. Si può infatti semplificare la struttura di molte norme abrogando prescrizioni, ma non cancellando quelle, comunque, necessarie e che finirebbero per ricadere nelle previsioni dei regolamenti o delle leges speciales delle pubbliche amministrazioni procedenti.[9]

Due strade s’affacciano. Occorrono regole chiare perché comprensibili, sia nel senso interpretativo, sia nella dimensione linguistica e della comunicazione che ne deriva; da quest’ultimo carattere deriva, altresì, la validità della norma, cioè la sua capacità d’essere convincente. Completa il quadro l’attuabilità che renda fattibile in concreto quella prescrizione legale, capace anche di operare limature alla conflittualità:[10] quest’ultima, è motivo d’intervento della legge con la volontà di dirimerla, non di provocarla.

Occorre, in parallelo, dare vita e generalizzare il principio della fiducia, secondo quanto voluto dal d.lgs. n. 36/2023 (art. 2): l’attribuzione e l’esercizio del potere si fondano sul principio della reciproca fiducia nell’azione legittima, trasparente e corretta dell’amministrazione, dei suoi funzionari e degli operatori economici; il principio della fiducia, quindi, tende a favorire e valorizzare sia l’iniziativa che l’autonomia decisionale dei funzionari pubblici, con particolare riferimento alle valutazioni e alle scelte per l’acquisizione e l’esecuzione delle prestazioni secondo il principio del risultato. Espressamente il Consiglio di Stato nella Relazione illustrativa al Codice dei contratti pubblici (relazione del 7 maggio 2022) ha indicato in questo e nel principio del risultato il cardine della disciplina della contrattualistica pubblica, legandone la ragione proprio alla volontà di superare la burocrazia difensiva lungo il solco tracciato già dalla riforma dell’art. 323 c.p.: «la fiducia che viene riconosciuta ai pubblici funzionari non è incondizionata, ma costituisce una sorta di contropartita di ciò che l’ordinamento si aspetta dall’azione amministrativa, ossia la realizzazione del risultato declinato dall’art. 1. La norma chiarisce che il principio della fiducia implica un ampliamento dei poteri valutativi e della discrezionalità della P.A. La valorizzazione dei poteri discrezionali del funzionario pubblico è, inoltre, in linea, nell’ottica del superamento della c.d. “paura della firma”, con la nuova formulazione dell’art. 323 c.p. (…). La norma ora introdotta, alla luce del nuovo testo dell’art. 323 c.p., segna, quindi, il definitivo superamento di quell’orientamento giurisprudenziale che, attraverso la valorizzazione dei principi generali di buon andamento e imparzialità, aveva in passato ricondotto nel campo di applicazione dell’abuso d’ufficio anche l’eccesso di potere, con conseguente sindacato da parte del giudice penale delle scelte discrezionali del pubblico ufficiale».

 

  1. Conclusioni

Tra le proposte d’intervento sull’abuso d’ufficio, quattro pendono presso la Camera dei deputati,[11] che ha dato avvio alla discussione dei progetti con la seduta della Commissione permanente Giustizia (29 marzo 2023):[12] proposte AC 399, AC 645 a favore dell’abrogazione dell’art. 323 c.p.; proposta AC 716 per una modifica limitativa dell’ambito applicativo della fattispecie penale; proposta AC 654 che indirizza verso la trasformazione del reato in illecito amministrativo. Al di là di ogni altra questione giuridica, lo scenario che tende alla trasformazione dell’abuso d’ufficio in illecito amministrativo, se mantenesse il medesimo paradigma legale (secondo il quale la discrezionalità escluderebbe l’illecito), invero planerebbe su una pista già nota: sarebbe già assorbibile nel diverso vizio di legittimità noto come violazione della legge, con la conseguente annullabilità dell’atto per illegittimità e la configurabilità delle responsabilità civile della P.A. e amministrativo-contabile del dipendente pubblico. Mutatis mutandis, la depenalizzazione complicherebbe il quadro applicativo nella materia del diritto amministrativo, che comunque sarebbe chiamato in causa pur se l’abuso d’ufficio venisse abrogato.

Si vedrà. Per il momento, rimane almeno la separazione opportunamente voluta nell’estate del 2020 tra il nuovo art. 323 c.p. e l’eccesso di potere viziante la legittimità dell’atto amministrativo.

[1] Sui significati di validità si vedano G. Corso, voce Validità (Diritto amministrativo), in Enc. Dir., vol. XLVI, Giuffrè, Milano 1993, pp. 84 e ss.; nella stessa Enc. dir., F. Modugno, voce Validità (Teoria generale). Inoltre, sull’annullabilità: M. D’Orsogna, Annullabilità del provvedimento, in La pubblica amministrazione e la sua azione, a cura di N. Paolantonio, A. Police, A. Zito, Giappichelli, Torino 2006; A. Police, voce Annullabilità e annullamento, in Enc. dir. annuali, I, Giuffrè, Milano 2007, pp 49 e ss.. Sull’illegittimità: M.S. Giannini, voce Illegittimità, in Enc. dir., vol. XXII, op. cit., 1972; F. G. Scoca, voce Attività amministrativa, in Enc. dir., aggiornamento, VI, op. cit., 2002; A. Cioffi, I problema della legittimità nell’ordinamento amministrativo, Cedam, Padova 2012; E. Picozza, Introduzione al diritto amministrativo, in particolare il cap. XVI – Attività amministrativa: regime giuridico, Cedam, Padova 2006, pp. 387-406. Per un efficace inquadramento e un chiaro esame delle problematiche sorte intorno all’invalidità provvedimentale, si veda M. D’Orsogna, L’invalidità del provvedimento amministrativo, in Diritto amministrativo, a cura di F.G. Scoca, Giappichelli, Torino 2014, p. 314-336.

[2] A. Codacci Pisanelli, L’eccesso di potere nel contenzioso amministrativo, in Giust. Amm., anno IV, 1892.

[3] Si parla di ‘vizio composito’ perché raccoglie le ipotesi eterogenee emerse dalla dottrina e dalla giurisprudenza: D’Orsogna, L’invalidità del provvedimento amministrativo, op. cit., p. 320.

[4] E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, XV edizione a cura di F. Fracchia, Giuffrè, Milano 2013, p. 374.

[5] D’Orsogna, L’invalidità del provvedimento amministrativo, op. cit., p. 320; B. G. Mattarella, Il Provvedimento, in Istituzioni di diritto amministrativo, a cura di S. Cassese, I, Giuffrè, Milano 2012, p. 361.

[6] Non si tratta di certo del falso scopo così come inteso nell’artiglieria militare, nell’ambito della quale s’impone addirittura come metodo quello di mirare a un diverso scopo per meglio inquadrare il vero bersaglio.

[7] Sul tema si veda, G. L. Gatta, L’annunciata riforma dell’abuso d’ufficio: tra “paura della firma”, esigenze di tutela e obblighi internazionali di incriminazione, in Sistema penale.it, fascicolo 5/2023, in cui, fra l’altro, si richiama T. Padovani, Vita, morte e miracoli dell’abuso d’ufficio, in Giurisprudenza Penale Web, 2020.

[8] Una sorta di classificazione sulle principali tipologie di formazione dei dipendenti pubblici potrebbe essere così strutturata; formazione:

  1. di inserimento o formazione iniziale;
  2. di aggiornamento (nelle pubbliche amministrazioni la formazione ha ruolo primario nei CCNL di riferimento);
  3. obbligatoria:

– D. Lgs. 81/2008 in tema di sicurezza;

– in tema di Privacy;

– formazione digitale obbligatoria tutti di lavoratori pubblici. Entro il 30 giugno le amministrazioni debbono aderire a Syllabus, portale del Ministero della funzione pubblica. A fine 2023 i contenuti formativi digitali dovranno essere erogati almeno al 30% dei dipendenti di ciascuna P.A.; a fine 2024 al 55% (almeno); entro il 2025 ad almeno il 75%. Le attività di formazione entrano in un’apposita programmazione del PIAO;

– D.L. n. 36/2022 (conv. in Legge n. 79/2022, cd. PNRR-2): all’art. 4, comma 1 ha aggiunto il comma 7 dell’art. 54 del d.lgs. n. 165/2001 e ora è previsto che: «Le pubbliche amministrazioni  prevedono  lo  svolgimento  di  un  ciclo formativo obbligatorio, sia a seguito di assunzione, sia in ogni caso di passaggio a ruoli o a funzioni superiori, nonché di trasferimento del personale, le cui durata e intensità sono proporzionate al grado di responsabilità, nei limiti delle risorse finanziarie  disponibili a  legislazione  vigente,  sui  temi  dell’etica  pubblica  e  sul comportamento etico»;

– in materia di appalti pubblici: l’art. 15, comma 7 del nuovo Codice (d.lgs. n. 36 del 2023) stabilisce chiaramente che: «Le stazioni appaltanti e gli enti concedenti, in coerenza con il programma degli acquisti di beni e servizi e del programma dei lavori pubblici di cui all’articolo 37, adottano un piano di formazione per il personale che svolge funzioni relative alle procedure in materia di acquisiti di lavori, servizi e forniture». Inoltre, l’art. 2, comma 4 del Codice prevede che «Per promuovere la fiducia nell’azione legittima, trasparente e corretta dell’amministrazione, le stazioni appaltanti e gli enti concedenti adottano azioni per la copertura assicurativa dei rischi per il personale, nonché per riqualificare le stazioni appaltanti e per rafforzare e dare valore alle capacità professionali dei dipendenti, compresi i piani di formazione di cui all’articolo 15, comma 7». Infine, l’art. 63 (Qualificazione delle stazioni appaltanti e delle centrali di committenza), al comma 7, lett. b) indica fra i requisiti di qualificazione per la progettazione e l’affidamento (disciplinati dall’allegato II.4) la “consistenza, esperienza e competenza delle risorse umane, ivi incluso il sistema di reclutamento e la adeguata formazione del personale”;

– in materia di anticorruzione e trasparenza: come è noto, è prevista la formazione obbligatoria dalla L. n. 190/2012, dal d.P.R. n. 62/2013 e dai Piani Nazionali che ha emanato annualmente l’ANAC. Per gli enti ai quali s’applica il d.lgs. n. 231/2001 la formazione è tra i fondamenti del Modello d’Organizzazione, Gestione e Controllo (MOG).

[9] Ad esempio, si pensi all’assenza, nel Codice appalti in vigore dal 1° luglio 2023, delle forme dei Raggruppamenti Temporanei d’Imprese (RTI orizzontali o verticali): non può che conseguirne una disciplina spostata, caso per caso, sulle previsioni adottate dalle singole stazioni appaltanti nel bando e nel disciplinare di gara. Dunque, la semplificazione è propriamente del Codice e non già delle amministrazioni, le quali non vedono risolto il problema di fondo.

[10] Queste caratteristiche e dimensioni (chiarezza, comprensibilità, validità e applicabilità) sono state indicate ed esaminate da M. De Benedetto, L’effettività come questione nel diritto, anche amministrativo, in Diritto amministrativo effettivo. Una introduzione, a cura di G. Corso, M. De Benedetto, N. Rangone, Il Mulino, Bologna 2022, pp. 98-104.

[11] Camera dei deputati, Servizio Studi, XIX Legislatura, Documentazione per l’esame di Progetti di legge: Dossier n. 82 – scheda di lettura 28 marzo 2023.

[12] Seduta cominciata alle ore 14.35 e terminata alle ore 15, col rinvio del «seguito dell’esame ad altra seduta».

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