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Cultura giuscontabilistica e coscienza civica, per una consapevole democrazia

di Franco Massi

Indubbiamente, è percezione diffusa che il Fisco solamente sottragga a cittadini e imprese produttive del Paese; invece, a ben vedere è un nuovo, più ampio investimento. A sua volta, la spesa nazionale pur se corretta sul piano della legittimità formale non è detto che lo sia anche nella sostanza; occorre perciò spiegare e far capire quanto la spesa pubblica rispetti davvero l’interesse nazionale, sia giusta e cioè che sia una spesa ‘fatta bene’: questa è la ragione della necessità di diffondere la cultura giuscontabilistica.

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La diffusione della cultura giuscontabilistica: il primo atto di una compiuta democrazia

Ma che significa diffondere la cultura giuscontabilistica? Non certo far uscire dalle aule ovattate della Giustizia contabile, dal Foro erariale o dall’Accademia le più fini dissertazioni sull’ultimo grido della dottrina e della giurisprudenza. Diffondere la cultura giuscontabilistica significa rivolgersi all’intero sistema-Paese, in maniera chiara e comprensibile a tutti, spiegando come vengono impiegati i soldi che ogni anno confluiscono nell’Erario pubblico. La percezione diffusa che spesso si ha del Fisco è quella di un’entità nefasta che sottrae ai cittadini e alle imprese produttive del Paese circa la metà della ricchezza che hanno prodotto, per riporla dentro una metaforica cassaforte: e forse non è un caso che nello stemma araldico della Guardia di finanza sia raffigurato un grifone con una zampa poggiata su una cassaforte, per proteggerla da chiunque si avvicini. In realtà, le zampe a tutela di quel forziere sono ben tre: la Guardia di finanza, la Ragioneria generale dello Stato e la Corte dei conti, cioè le tre Istituzioni deputate a far sì che in quella cassaforte “entri tutto ciò che deve entrare e non esca ciò che non deve uscire”.

Rispondere, “dare conto” ai cittadini e alle imprese di come vengono spesi quei soldi, sviluppare un discorso sulla bontà della spesa, significa farsi interpreti dell’interesse nazionale. Significa, cioè, capire e spiegare quanto la spesa pubblica rispetti davvero l’interesse nazionale. Rispettare l’interesse nazionale vuol dire spendere bene, ma spendere bene non significa soltanto spendere in maniera legittima, corretta e coerente con la migliore dottrina e con la giurisprudenza: spendere bene i soldi pubblici vuol dire, innanzitutto, superare la cultura dell’output per entrare nella cultura dell’outcome (per passare dalla semplice rendicontazione delle “cose fatte” ad una vera e propria misurazione degli effetti concreti che le “cose fatte” hanno prodotto sul tessuto socio-economico del Paese), per guardare non più ai risultati immediati bensì al cambiamento del sistema indotto da quei risultati. Un’opera pubblica tardiva, un servizio pubblico tardivamente reso, sono un’opera inutile e un servizio pubblico inutile. Una spesa corretta sul piano della legittimità formale non significa necessariamente una spesa giusta nella sostanza.

Il PNRR per il riavvio del sistema-Paese: legittimità dell’azione amministrativa o speditezza dell’azione amministrativa? Controlli si, ma su cosa?

Il fattore tempo alimenta praticamente da sempre la dicotomia storica fra legalità dell’azione amministrativa, da una parte, e tempestività, efficienza, efficacia dell’azione amministrativa dall’altra. Ed il tempo è proprio uno dei fattori che, nell’attuazione del PNRR, assume particolare valenza, anzi direi che rappresenta un elemento essenziale. Se le risorse del PNRR non saranno spese tempestivamente diventerà, forse, persino inutile che siano spese: e la necessaria ricerca di un equo contemperamento di questi interessi (apparentemente) contrapposti ci induce ad una sfida prima di tutto culturale.

Il cambiamento investe anche il sistema dei controlli, che dovranno essere a tutto campo: preventivi, successivi e concomitanti; di legalità, di regolarità e sulla gestione. La nostra comune esperienza ci insegna che la semplificazione delle procedure induce spesso la criminalità organizzata ad incrementare la propria attività, ma nello stesso tempo la rete dei controlli, necessariamente a 360°, non deve rallentare l’azione amministrativa, con il conseguente rischio di violare il parametro di tempestività posto dal Piano. Occorre, dunque, conciliare in maniera adeguata la tempestività dell’azione amministrativa con la legalità dell’azione amministrativa. Con l’esperienza pluriennale di Consigliere delegato al controllo di legittimità sugli atti del MIMS e del MiTE ho maturato il convincimento che nei controlli preventivi la Corte dei conti – con i suoi trenta giorni di tempo per esaminare gli atti e formalizzare eventuali rilievi istruttori, poi altri trenta per decidere se registrare o negare il visto sulla base delle risposte ricevute dall’amministrazione – ha a disposizione un tempo ristretto, specie se si considera che molto spesso si tratta di contratti complessi, del valore di molti milioni, talvolta di miliardi di euro. Una volta esistevano le Ragionerie centrali dello Stato presso i singoli Ministeri e gli atti pervenivano al controllo preventivo della Corte dei conti già adeguatamente “filtrati” dal controllo di ragioneria: dal 2014 in poi, invece, le corsie sono state separate e da allora ogni amministrazione, dopo aver istruito un contratto per mesi, a volte anche per anni, lo invia contemporaneamente all’Ufficio centrale di bilancio e alla Corte dei conti, che dispongono di poco tempo per analizzare, comprendere e decidere.

Dalla cultura dell’output alla cultura dell’outcome: come si combatte la “firmite”?

L’attuazione del PNRR procede per milestone e target. Il punto nodale è quindi il monitoraggio degli indicatori quantitativi e qualitativi che ne segnano il raggiungimento e dal cui esito positivo dipende l’erogazione dei fondi. Questo significa compiere un ulteriore sforzo culturale per responsabilizzare i funzionari pubblici. Fino alla stagione riformistica del 1993 i controlli “occhiuti” – un aggettivo che non uso a caso – della Corte dei conti e della Ragioneria dello Stato tenevano sostanzialmente al riparo i dirigenti pubblici dall’assunzione di responsabilità, perché qualunque atto riceveva almeno due “timbri” e questo li faceva vivere tranquilli rispetto alle possibili conseguenze negative derivanti dagli atti adottati. La riforma della dirigenza del 1993 (d.lgs. n. 29) si è temporalmente combinata con la riforma dei controlli della Corte dei conti del 1994 (legge n. 20), che ha sostituito il controllo preventivo “occhiuto” e generalizzato su tutti i provvedimenti prodotti dai dirigenti con un controllo preventivo (e interdittivo) molto più selettivo, riservato ai soli atti principali delle amministrazioni, introducendo invece, in via generalizzata, il controllo successivo sulla gestione (già) svolta dai vari dirigenti, in capo ai quali resta la piena responsabilità degli atti adottati, per un periodo non brevissimo. La cultura dell’audit, da sempre presente nei Paesi anglosassoni e nel Nord Europa in genere, ha fatto così ingresso anche in Italia, benché debba amaramente osservarsi che dopo quasi ventinove anni ancora fatica a consolidarsi. Peraltro, l’esigenza di coniugare la maggiore responsabilizzazione di chi gestisce risorse pubbliche con il restringimento dei controlli preventivi di legittimità ai soli atti/contratti più significativi ha innescato una serie di meccanismi di difesa, come la famigerata “firmite” (o “paura della firma”), che hanno in qualche modo rallentato o bloccato lo sviluppo socio-economico del sistema-Paese legato all’erogazione dei fondi pubblici. Il Legislatore è intervenuto, non da oggi, attraverso una serie di “alleggerimenti” delle responsabilità – l’art. 17, commi 30-ter e 30-quater, del decreto-legge n. 78/2009, che hanno, rispettivamente, limitato l’esercizio dell’azione di danno erariale solo a fronte di specifica e concreta notizia di danno, il primo, ed escluso la responsabilità amministrativa per gli atti vistati e registrati in sede di controllo preventivo di legittimità, il secondo; l’art. 21 del decreto-legge n. 76/2020, che ha temporaneamente limitato, fino al 30 giugno 2023, l’ambito di operatività della responsabilità amministrativa; l’art. 48 del decreto-legge n. 77/2021, che al fine di evitare blocchi o rallentamenti nella realizzazione tempestiva delle opere e dei servizi pubblici, impedisce la caducazione in sede contenziosa delle procedure di affidamento dei contratti pubblici PNRR e PNC, riconoscendo eventualmente la sola risarcibilità del danno per equivalente al termine del processo di cognizione piena (la sospensione o l’annullamento dell’affidamento non comporta la caducazione del contratto già stipulato, e il risarcimento del danno eventualmente dovuto avviene solo per equivalente”) – ma anche queste misure rischiano di dare spazio non solo e non tanto a chi intende, in buona fede, accelerare e rendere un servizio utile al sistema-Paese, bensì, piuttosto, a chi, in malafede, vuole insinuarsi nelle pieghe del sistema per distrarre cospicui finanziamenti pubblici grazie a controlli meno pedissequi rispetto al passato. In questo, l’azione congiunta e coordinata di controllo/deterrenza svolta dalla Corte dei conti, dalla Ragioneria generale dello Stato e dalla Guardia di finanza risulta essenziale per il futuro del nostro Paese.

Un quadro di luci ed ombre, insomma, in cui si calano le ingentissime risorse stanziate dal PNRR in favore dell’Italia, sulle quali occorre necessariamente fare affidamento – come già accadde negli anni cinquanta con il “volano” del Piano Marshall – per tentare di offrire alle future generazioni un sistema Paese in grado di accoglierle e di garantire loro un adeguato sviluppo sociale ancor prima che economico.

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