COMMETTE REATO L’AMMINISTRATORE DI CONDOMINIO CHE NON CONSEGNA LA DOCUMENTAZIONE CONTABILE DOPO LA FINE DEL MANDATO

di Pietro Errede

Corte di Cassazione, Sezione II Penale, sentenza n. 31192 del 16 aprile 2014 e depositata il 16 luglio 2014

Con la sentenza n. 31192/2014 la Cassazione ha confermato la responsabilità di un amministratore di condominio palermitano per entrambi i reati contestati, ossia appropriazione indebita aggravata (artt. 646 e 61 n. 7 cod. pen.) e mancata esecuzione di un provvedimento giurisdizionale (art. 388 co. 2 cod. pen.). L’amministratore si era infatti rifiutato di restituire i documenti contabili inerenti all’amministrazione di un condominio.

 


L’esistenza delle leggi e del sistema giudiziario preordinato ad applicarle nelle fattispecie concrete non è sufficiente garanzia della esatta realizzazione dell’ordine sociale. È necessario che l’attività giudiziaria funzioni correttamente, senza ostacoli o travisamenti nel suo svolgimento. Dopodiché, quando vengono emesse le decisioni giudiziarie deve esserne garantita l’efficacia di esecuzione e, in ogni caso, l’unicità del potere giudiziario. Il Legislatore ha ritenuto di poter tutelare queste esigenze con il terzo titolo del secondo libro del Codice Penale: delitti contro l’amministrazione della giustizia. In particolare il titolo si suddivide in Delitti contro l’attività giudiziaria (artt. 361-384 bis c.p.), Delitti contro l’autorità delle decisioni giudiziarie (artt. 385-391 c.p.) e Delitti di tutela arbitraria delle proprie ragioni (artt. 392 e 393 c.p., unici rimasti in vigore dopo la L. n. 205/1999).
Il delitto previsto dall’art. 388 c.p. è inserito in questo contesto, in particolare fra quelli contro l’autorità delle decisioni giudiziarie a garanzia dell’effettiva esecuzione dei provvedimenti del Giudice. La fattispecie penalmente rilevante è la condotta fraudolenta od elusiva che porta a non concretizzare l’ordine giudiziario, non necessariamente definitivo, circa adempimenti di obblighi civili mentre l’obiettivo della norma è ripristinarne l’efficacia. In merito al comportamento elusivo, previsto dal comma 2 dell’art. 388 c.p., la tutela si riferisce a provvedimenti giudiziari che si occupano solo di alcune fattispecie di particolare rilevanza sociale: l’affidamento dei minori e degli incapaci, le misure cautelari a difesa della proprietà, del possesso o del credito. In ogni caso, per la configurabilità di tale delitto è richiesto il dolo generico consistente nella coscienza e volontà di disobbedire al provvedimento del giudice. Il reato è procedibile a querela della persona offesa dalla condotta delittuosa. Il problema sostanziale, per la configurazione del delitto ex comma 2 dell’art. 388 c.p., è codificare il comportamento di “chi elude l’esecuzione di un provvedimento del giudice civile”.

Secondo una parte di giurisprudenza “nel delitto di cui all’art. 388 c.p. il termine “elusione” deve essere inteso in senso ampio sino a comprendere qualunque comportamento positivo o negativo – che non esige scaltrezza o condotta subdole – diretto ad ostacolare l’esecuzione del provvedimento del giudice” (Cass., sez. III, 14 febbraio 1969, Soricelli, m. 111040, Cass., sez. I, 20 gennaio 1978, Righi, m. 139625, Cass., sez. III, 4 giugno 1980, Guidi, m. 146139, Cass., sez. VI, 4 giugno 1990, Piraino, m. 185810, Cass., sez. VI, 8 maggio 1996, Sapienza, m. 205078, Cass., sez. VI, 6 ottobre 1998, De Leo, m. 211739). In questo caso “il delitto di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice non presuppone a nessun effetto che l’interessato abbia previamente promosso l’esecuzione forzata del diritto riconosciutogli dal giudice, essendo sufficiente che egli abbia richiesto, anche informalmente, di adempiere” (Cass., sez. VI, 1 luglio 1997, Perri, m. 209279, Cass., sez. III, 16 marzo 1982, D’Introno, m. 154215).
Altro orientamento giurisprudenziale ha invece sostenuto che “ai fini della sussistenza del reato di elusione di un provvedimento del giudice di cui all’art. 388, comma secondo c.p., non è sufficiente un mero comportamento omissivo, ma è necessario un comportamento attivo ovvero commissivo del soggetto, diretto a frustrare o quanto meno a rendere difficile l’esecuzione del provvedimento giudiziale, ciò perché la semplice inattività viene perseguita dalla legge con sanzioni di carattere civilistico appositamente predisposte” (Cass., sez. VI, 19 marzo 1991, Modesto, m. 187420, Cass., sez. VI, 23 marzo 2000, Valente, m. 220561; analogamente già Cass., sez. III, 17 ottobre 1968, Di Florio, m. 109706, Cass., sez. III, 16 maggio 1974, Tedeschi, m. 129207, Cass., sez. III, 31 ottobre 1979, Girola, m. 143826, Cass., sez. VI, 8 aprile 1981, Saracini, m. 090008).

Una terza tesi si basa sulla natura dell’obbligo imposto dal provvedimento giudiziale. Se è un obbligo di non fare risulterà elusivo il solo fatto della sua violazione; se è di fare, sarà rilevante solo quel comportamento volto a impedire la realizzazione dell’ordine giudiziale (Cass., sez. VI, 9 maggio 2001, Caratelli, m. 219973, Cass., sez. VI, 12 novembre 1998, Salini, m. 213909). In particolare, se si tratta della violazione di obblighi di fare, “la inazione dell’obbligato può assumere rilievo, ogni volta che l’esecuzione del provvedimento del giudice richieda la sua collaborazione” (Cass., sez. VI, 18 novembre 1999, Baragiani, m. 217332, Cass., sez. III, 22 ottobre 1971, Trio, m. 119710, Cass., sez. III, 18 maggio 1967, Palmerini, m. 104898), in particolare se si tratti di attività non fungibile (Cass., sez. III, 15 maggio 1967, Silvestro, m. 105101).

 

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