Millantato credito e traffico di influenze illecite

di Sergio Barbiera e Giuliana Udine

Il recente intervento legislativo apprestato con la legge 9 gennaio 2019, n. 3 (c.d. “Spazzacorrotti”) ha abrogato la fattispecie di millantato credito prevista e punita dall’art. 346 c.p., ridisegnando coevamente l’ipotesi delittuosa di cui all’art. 346 bis c.p. mediante una riformulazione del suo precetto.


L’abrogazione dell’art. 346 c.p. in una contestuale interpolazione della figura del traffico di influenze illecite involge necessariamente la questione di diritto intertemporale afferente, segnatamente, il fenomeno della c.d. abrogatio sine abolitione. Nell’ambito delle vicende di ius superveniens, infatti, non sempre è agevole discernere se si è al cospetto di un’abrogatio cum abolitione di cui all’art. 2, co. 2 c.p. ovvero di un’abrogatio sine abolitione, che identifica un’ipotesi di mutatio ex art. 2, co. 4 c.p. Per vero, non sempre alla formale abrogazione di una norma incriminatrice si accompagna la perdita di rilevanza penale dei comportamenti in precedenza sussunti nell’alveo applicativo della medesima norma abrogata. Tanto in considerazione del fatto che l’abrogazione opera su un piano normativo, mentre l’abolizione su un piano sostanziale. Le refluenze che da una siffatta distinzione discendono sul versante pratico non sono di poco momento. Più specificamente, là dove la mens legis deponga nel senso di una successione solo modificativa (c.d. successione propria) troverà applicazione il regime di cui all’art. 2, co. 4 c.p. nel quale è scolpito il principio di retroattività favorevole con il limite del giudicato. Ex adverso, là dove la voluntas legis sia di segno spiccatamente abolitivo, il fatto precedentemente sussunto nella fattispecie abrogata non costituirà più reato e, per l’effetto, la retroattività favorevole opererà travalicando altresì il giudicato. Da qui l’esigenza fortemente avvertita in dottrina e in giurisprudenza di individuare dei criteri discretivi idonei a identificare e distinguere i fenomeni di mutatio, ricomprensivi della c.d. successione impropria, ricorrente – come anzidetto – ove vi sia abrogatio sine abolitione, dai fenomeni di abrogatio cum abolitione.

Ed allora, il criterio più diffusamente impiegato dalla giurisprudenza per accertare il profilarsi di un’ipotesi di mutatio piuttosto che di autentica abolitio criminis è quello di specialità. Criterio, quest’ultimo, alla stregua del quale, ogniqualvolta tra una norma abrogata e un’altra coesistente sussiste un rapporto di genere a specie, vi è continuità normativa e quindi mutatio con conseguente applicazione del regime di cui all’art. 2, co. 4, c.p. Trattasi, pertanto, di un criterio formale in quanto facente leva sul confronto strutturale tra fattispecie astratte, per tale da preferire rispetto a un criterio valutativo, quale quello imperniato sull’omogeneità dei beni giuridici tutelati e sulle modalità di offesa, inidoneo, ad assicurare approdi interpretativi certi.
Sennonché, malgrado risulti più agevole concludere per una vicenda meramente modificativa laddove l’abrogazione abbia investito una norma speciale, rispetto a un’altra coeva, determinando di talché una riespansione della latitudine operativa di quest’ultima, residuano ipotesi di più speciosa soluzione.
Ed infatti, il fenomeno di abrogatio sine abolitione può pacificamente profilarsi quando all’abrogazione si accompagni la contestuale introduzione di una nuova fattispecie incriminatrice prevista da un’apposita norma. Cionondimeno, può parimenti verificarsi un caso di abrogatio sine abolitione laddove all’apparente abrogazione si accompagni la contestuale modifica di una norma già esistente, tale da estenderne i margini applicativi, sì da ricomprendere nella sua latitudine operativa contegni precedentemente criminalizzati dalla fattispecie abrogata. Quest’ultima modalità di atteggiarsi del fenomeno dell’abrogatio non abolitiva – come anticipato- si è registrata proprio con riferimento all’abrogazione del millantato credito di cui all’art. 346 c.p. La ratio sottesa alla l. 3/19 si sintetizza nel potenziamento dell’azione di repressione del fenomeno corruttivo di tipo politico-affaristico gravemente favorito dall’apporto di chi, rivestendo il ruolo di mediatore, realizzi il pactum sceleris senza che il committente corruttore entri in diretto contatto con il pubblico agente corrotto.
Ed invero, l’azione di contrasto in argomento era già stata iniziata dalla legge 190/2012 (legge Severino) cui si deve, in ottemperanza agli impegni sovranazionali assunti dall’Italia con la Convenzione di Merida e di Strasburgo del 1999, l’introduzione della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 346 bis c.p., oggi per l’appunto riformulata.

La norma di cui all’art. 346 bis costituisce ius receptum delle ragioni di politica criminale che avevano indotto l’elaborazione pretoria a dilatare le maglie dell’art. 346 c.p. sino a ricomprendervi il mercanteggiamento di un’influenza reale, che tendeva a sconfinare dall’area semantica del concetto di “millanteria”. Pur tuttavia, il rischio di una simile operazione ermeneutica era rappresentato dalla sua frizione con il principio di legalità, sub specie di tassatività, traducendosi in un’interpretazione analogica in malam partem. Ed allora, la voluntas legis che ispira il novum legislativo, ed evidenziata nella Relazione di accompagno al ddl, è di realizzare – sempre nell’ottica di una marcata lotta alla corruzione – una continuità normativa con l’abrogato art. 346 c.p.

Ciò malgrado, la recente giurisprudenza si discosta dall’impostazione caldeggiante per l’integrale accorpamento dell’art. 346 c.p. all’art. 346 bis c.p., sostenendo che un tale assorbimento sia solo parziale, esulando dai confini della sovrapposizione tra tali due fattispecie a confronto tutte quelle condotte caratterizzate da condotte di tipo decettivo.
Ed infatti, la tendenza che sta iniziando a registrarsi nella giurisprudenza di legittimità è nel senso di ricondurre alcune condotte prima punibili ai sensi dell’art. 346, co. 1 e i contegni di cui al comma 2 entro il perimetro applicativo del delitto di truffa di cui all’art. 640 c.p., escludendo la punibilità del committente, che già prima dell’abrogazione dell’art. 346 c.p. era considerato soggetto passivo del reato.
La qualificazione del committente come soggetto passivo del reato, infatti, si giustificava alla luce della natura plurioffensiva del delitto de quo, che, secondo la dottrina maggioritaria, costitutiva un quid medium tra i reati contro il patrimonio e i “reati contro il prestigio della P.A.” Id est, l’ipotesi di cui al primo comma dell’abrogato art. 346 c.p. era considerata, secondo un certo indirizzo interpretativo, un’ipotesi confinante con il delitto di truffa, le cui peculiari modalità realizzative recavano nocumento alla P.A. Invece, la figura di cui al secondo comma era considerata una sorta di ipotesi speciale di truffa, in quanto tale ostativa alla configurabilità di un concorso tra art. 346, co. 2 e art. 640 c.p.
Più precisamente, la condotta punita alla stregua del primo comma dell’art. 346 c.p., come evocata dalla locuzione “millantando credito”, si qualificava come “fraudolenta” in senso lato, tale da non integrare gli estremi della truffa ex art. 640 c.p. e, piuttosto, ove fosse idonea a presentare i tratti caratterizzanti il delitto di truffa, prospettava la configurabilità di un concorso formale tra art. 346, co. 1 e art. 640 c.p. Vi è di più: il tratto lato sensu fraudolento valeva a distinguere la fattispecie di cui all’art. 346 da quella ex art. 346 bis c.p.

Ponendo mente al secondo comma dell’abrogato art. 346 c.p., considerato per l’appunto da dottrina e giurisprudenza maggioritaria un’ipotesi speciale di truffa – in quanto connotato da una particolare modalità di raggiri e artifizi – rileva che la tipicità si annidava tutta nel concetto di “pretesto” in cui si situava la riconducibilità all’idea di inganno perpetrato ai danni del privato committente. Infatti, ove il millantatore ricevesse o si facesse dare denaro o altra utilità per compensare il pubblico agente o remunerarlo, mantenendo l’intento di conservare per sé la prestazione ricevuta, si profilava una vera e propria venditio fumi. Tale ultima ipotesi era punita più severamente proprio per la particolare carica offensiva che una condotta decettiva di tal fatta arrecava all’immagine della P.A., prospettando, cioè, il pubblico funzionario come corrotto o corruttibile.
Ex adverso, ove il millantatore non intendesse mantenere per sé l’oggetto della datio o della promessa, avrebbe potuto configurarsi il reato di istigazione alla corruzione ex art. 322 c.p., del quale era chiamato a rispondere a titolo di concorso anche il privato autore della datio o della promessa, oppure il delitto di cui all’art. 346 bis c.p., sempreché il “pubblico agente” non accettasse tale prestazione. Di converso, se il “funzionario pubblico” avesse accettato il pactum sceleris si sarebbe configurata un’ipotesi di corruzione consumata della quale sarebbero stati chiamati a rispondere oltre al corrotto e al diretto corruttore anche il privato autore della datio.

Rispetto al delitto di traffico di influenze illecite ex art. 346 bis di nuova formulazione, le novità apportate al precetto penale sono rivelatesi particolarmente significative.
Anzitutto, rileva l’ampliamento dell’oggetto materiale della fattispecie: si punisce anche la vanteria di relazioni solo asserite. Ciò risponde con ogni evidenza alla ratio legis improntata alla repressione del fenomeno corruttivo, così da stigmatizzare ogni accordo suscettibile di produrre influenze illecite sull’agere amministrativo, a prescindere, finanche, dall’effettiva esistenza di relazioni tra il “trafficante” e l’intraneus. Pertanto, il novum più significativo è rappresentato dal disancoramento da quello che era considerato dalla giurisprudenza il requisito implicito della fattispecie in argomento, id est l’effettiva idoneità a influenzare il pubblico agente, che esigeva l’equipollenza tra relazione esistente e relazione idonea. L’inconveniente pratico di tale requisito implicito si coglieva sul piano probatorio: l’accertamento dell’esistenza di una relazione idonea ad assicurare al mediatore un potere d’influenza sul pubblico agente tale da condizionarne l’attività e le determinazioni, si traduceva in una probatio diabolica, giustificativa della diversa contestazione del reato di cui all’art. 346 c.p. che consentiva, stanti i più elevati margini edittali, di fare ricorso allo strumento delle intercettazioni oltre che avvalersi della prova testimoniale offerta dal privato acquirente ove questi fosse vittima di un vero e proprio raggiro tradottosi in un danno patrimoniale ogniqualvolta la relazione vantata dal millantatore-trafficante non esistesse affatto.

Altro ampliamento della tipicità della fattispecie de qua ha riguardato il ventaglio dei reati scopo. Ed infatti, al primo comma è stato inserito il riferimento alla corruzione impropria ex art. 318 c.p., in luogo della corruzione propria ex art. 319 c.p. che transita, sempre come reato scopo, nel quarto comma unitamente alla previsione relativa alla corruzione in atti giudiziari ex art. 322 c.p., importando un aumento di pena. Da qui, il correlativo ampliamento della clausola di riserva, atto ad escludere il concorso con tali reati fine. Quanto all’eventuale concorso con altri reati, diversi da quelli espressamente menzionati nella diposizione, questo è escluso per il ricorrere dell’assorbimento entro le più gravi fattispecie di cui agli artt. 323 c.p. (abuso d’ufficio), 353 c.p. (turbativa d’asta) e 326 c.p. (rivelazione di segreti d’ufficio). Infine, è a escludersi il concorso, in omaggio al canone di ragionevolezza, con l’istigazione alla corruzione ex art. 322 c.p., atteso che rappresenta un’ipotesi delittuosa più lieve rispetto ai reati scopo di corruzione nella forma consumata.

Ulteriore ampliamento del perimetro operativo della nuova norma è segnato dall’espansione, tramite il rinvio all’art. 322 bis c.p., della categoria dei soggetti che il trafficante intenda avvicinare o con i quali vanti una relazione. Peraltro, laddove il soggetto attivo sia a sua volta un “pubblico agente”, è previsto un aumento di pena. Al riguardo, in dottrina è stato osservato che sarebbe risultato più coerente con la ratio legis differenziare i modelli di incriminazione e, quindi, ricondurre le condotte poste in essere dal trafficante che fosse pubblico funzionario entro l’alveo applicativo dell’art. 318 c.p. con un più proporzionato trattamento sanzionatorio, così da escludere l’operatività della causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis c.p.
Alla stregua della riformulazione in senso ampliativo testé esposta, ne emerge una macro fattispecie caratterizzata da un contenuto disvaloriale non proprio omogeneo. In particolare, alla voluntas legis che opta per una continuità normativa tra art. 346 e art. 346 bis c.p., come claris verbis enucleato nella Relazione di accompagnamento al ddl, fa da contraltare un recente orientamento della giurisprudenza che esclude una totale sovrapposizione tra l’abrogata fattispecie di cui all’art. 346 c.p. e la riformulata figura criminosa ex art. 346 bis c.p.
Una prima problematica attiene alla ubiquitaria figura del traffico meramente putativo o impossibile, ricorrente là dove il “trafficante” vanti relazioni non solo non esistenti al tempo del patto illecito, ma neanche possibili a sorgere in seguito, risolvendosi la sua vanteria in vero e proprio inganno ai danni della controparte committente.
Ebbene, nel senso della riconducibilità di tale condotta sotto l’egida applicativa dell’art. 346 bis c.p., e quindi di un accorpamento della fattispecie ex art. 346 c.p. al nuovo traffico di influenze illecite, sembra deporre il tenore letterale della disposizione là dove fa impiego della locuzione “vantare relazioni asserite”, sinonimica rispetto all’espressione “millantato credito”. Del resto, il dichiarato intento del Legislatore è quello di anticipare la soglia della tutela penale incriminando qualunque accordo che tenda a sfociare in un patto corruttivo e che prospetti il pubblico ufficiale come corruttibile o quantomeno sensibile a indebite ingerenze, nuocendo al prestigio e, quindi, all’immagine e alla credibilità della P.A. Tanto a prescindere dal fatto che il committente sia stato ingannato e abbia conseguentemente subito un danno patrimoniale e ciò sul rilievo che egli è comunque scientemente controparte di un negozio avente finalità illecita.

Ex adverso, la giurisprudenza è di contrario avviso rilevando dei punti di frizione con i principi di offensività e materialità oltre che con il canone di ragionevolezza. Quanto a quest’ultimo principio, emerge infatti l’irragionevolezza di una disparità sotto il profilo del trattamento sanzionatorio tra il compratore della mediazione effettiva o potenziale, che conclude il pactum sceleris in condizioni di sostanziale par condicio contractualis e l’acquirente di mero fumo. Nel caso di traffico illecito potenziale, infatti, è pacifico l’assorbimento del millantato credito nell’art. 346 c.p. atteso che si tratta di un’ipotesi in cui il “trafficante” vanta delle relazioni non ancora esistenti al tempo del patto illecito, ma che si impegna a far sorgere in vista dell’eventuale successiva mediazione illecita. Allora, il Legislatore avrebbe potuto, quantomeno, attendere a una graduazione della tariffa penale a seconda della condotta più o meno decettiva del trafficante.

Sul versante dell’offensività e della materialità, che costituisce un prius logico rispetto al profilo della irragionevole disparità di trattamento sanzionatorio, la punibilità del “compratore di fumo” entra in rotta di collisione con i predetti principi. Ciò perché si tratterebbe di punire una mera intenzione malvagia non estrinsecatasi in quel minimum materiale di condotta idoneo a recare offesa ai beni giuridici tutelati raggiungendo la soglia di tipicità e, quindi, di rilevanza penale. Ecco che nella prospettazione ermeneutica de qua, per evitare vuoti di tutela, il c.d. traffico putativo (prima sussumibile nel primo comma dell’art. 346 c.p.) andrebbe più correttamente qualificato come reato di truffa ex art. 640 c.p. L’argomentazione su cui fa leva la giurisprudenza si serve della valorizzazione del criterio letterale in forza del quale il raggiro ex art. 640 c.p. ricomprende anche una dichiarazione menzognera idonea ad indurre in errore la vittima che conseguentemente pone in essere l’atto di disposizione patrimoniale.
La soluzione interpretativa da ultimo esposta non è scevra da critiche da parte della dottrina sotto il profilo della irragionevolezza, consistente nel far dipendere la punibilità o meno dell’acquirente dalla diversa tipologia dell’inganno e, in secundis, nel fatto che ove il millantato credito corruttivo di cui al secondo comma dell’abrogato art. 346 c.p. venisse assorbito dalla fattispecie di truffa –come sostenuto dalla medesima giurisprudenza- si registrerebbe ancora una volta una disparità sotto il profilo della risposta repressiva tra le due ipotesi di venditio fumi (i.e. la mediazione solo putativa e la condotta prima punibile alla stregua del secondo comma dell’art. 346 c.p.) con evidente violazione del principio di proporzionalità.
Ed invero, secondo la giurisprudenza di legittimità, non sussiste continuità normativa neanche tra il secondo comma dell’abrogato art. 346 c.p. e il nuovo art. 346 bis c.p. Il giudice della nomofilachia, infatti, opta, piuttosto, per la continuità normativa tra art. 346, co. 2 c.p. e art. 640 c.p. collocandosi nel solco di un formante giurisprudenziale granitico nel sostenere la qualificazione del predetto comma 2 alla stregua di un’autonoma fattispecie speciale di truffa, atteso che il concetto di pretesto figura già al secondo comma dell’art. 640 c.p.
Ciò nondimeno, anche rispetto a tale ricostruzione ermeneutica, parte della dottrina ha avanzato delle critiche sotto un triplice aspetto. In primis, sotto il profilo della tipicità mancherebbe l’elemento costitutivo dell’ingiusto profitto, dal momento che l’abrogata ipotesi ex art. 346, co. 2 poteva consumarsi anche con la sola promessa di denaro o di altra utilità e non solo tramite un’effettiva datio.
In secundis, osta alla qualificazione in termini di truffa la diversità di beni giuridici tutelati (patrimonio nel caso di truffa; prestigio della P.A. nel caso di millantato credito corruttivo). Rilievi, questi testè esposti, che, già prima dell’abrogazione dell’art, 346 c.p., inducevano a rendere opinabile la sussistenza di un rapporto d specialità tra art. 346, co. 2 e art. 640 c.p.

Infine, ulteriore rilievo critico non indifferente si coglie nell’antitesi della ricostruzione pretoria rispetto alla ratio legis ben espressa nella citata Relazione di accompagnamento.
In conclusione, alla luce di quanto precede, emerge che aderendo alla manovra ermeneutica della recente giurisprudenza di legittimità, non vi è integrale continuità normativa tra millantato credito ex art. 346 c.p. e nuovo traffico di influenze illecite di cui all’art. 346 bis c.p., esulando da tale accorpamento contegni di tipo decettivo un tempo riconducibili al primo comma dell’art. 346 c.p. (e segnatamente la vanteria di relazioni che il millantatore non poteva o non intendeva affatto instaurare) e quelle condotte integranti il millantato credito corruttivo di cui al secondo comma dell’art.346 c.p. Tali ipotesi, riconducibili alla c.d. venditio fumi sarebbero piuttosto sussumibili sotto l’egida applicativa dell’art. 640 c.p. così da realizzare un fenomeno di abrogatio sine abolitione.
Ex advesro, alla luce della voluntas legis, la sovrapposizione tra la vecchia fattispecie ex art. 346 c.p. e la riformulata figura di cui all’art. 346 bis c.p. sarebbe piena, residuando tuttavia dubbi interpretativi, sotto il profilo del rispetto dei principi di offensività e materialità, circa il c.d. traffico meramente putativo. Sicché, rispetto a quest’ultima ipotesi, ove si neghi la sussistenza di un rapporto di specialità unilaterale con la fattispecie di truffa ex art. 640 c.p., si profilerebbe un caso di abrogatio cum abolizione, più specificamente di parziale abolitio crminis del delitto di cui all’art. 346, co. 1 c.p. ©

 


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