In Italia stiamo vivendo un momento storico dove il tema delle intercettazioni impegna oltre modo il dibattito politico, probabilmente per la falsa percezione che sia divenuto impellente riformare uno strumento che, di fatto, costituisce l’unico mezzo per far emergere l’illecito perfettamente mascherato nel mondo degli affari, dello sport e finanche delle stesse istituzioni.
Il 29 marzo scorso, in un cordiale incontro tra il presidente delle Camere penali ed il Guardasigilli si è reso noto che entro il mese di giugno saranno emanati uno o più disegni di legge inerenti alla revisione dei reati contro la pubblica amministrazione, della prescrizione, delle misure cautelari, delle impugnazioni delle sentenze di assoluzione e, appunto, delle immancabili intercettazioni.
Sempre sul tema, qualche settimana prima e più precisamente il 16 marzo, si è espressa la Corte di Giustizia Europea nella causa C-339/21 avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dal Consiglio di Stato italiano che, adito in appello, ha chiesto se il diritto dell’Unione imponesse il rimborso integrale dei costi effettivamente affrontati dagli operatori di telecomunicazioni per l’esecuzione delle operazioni di intercettazione. La Corte ha negato la sussistenza dell’obbligo per lo Stato membro con l’unica eccezione che la normativa di riferimento non sia discriminatoria, ma proporzionata e trasparente.
Giova ricordare che, ai sensi del Codice delle comunicazioni elettroniche ed in caso di richiesta proveniente dalle autorità giudiziarie e dalle autorità di sicurezza nazionale, gli operatori di telecomunicazioni sono tenuti ad effettuare operazioni di intercettazione a fronte di un canone annuo forfettario, stabilito da un decreto interministeriale del 28 dicembre 2017. Tale decreto presenta previsioni con forti criticità interpretative, alcune anche di dubbia applicazione tecnica, con un allegato che è stato rinominato appunto “listino” perché, ad ogni censita richiesta delle autorità verso gli operatori di telecomunicazioni, riporta un costo forfettario (ndr, per approfondimenti si rimanda all’audizione della Lawful Interception Academy nel 2021 davanti la Commissione di giustizia alla Camera). Come peraltro è già avvenuto nel passato con interventi normativi simili, il legislatore non ha definito ogni singola voce ma ne ha definito il suo costo. Già dieci anni fa su questa rivista paragonavo tale tipo di listino al menù di un ristorante, dove sono riportati i costi dei singoli piatti, ma non il loro contenuto.
Tale decreto ha ridotto di almeno il 50% i rimborsi delle spese connesse a dette operazioni di intercettazione rispetto al passato, principio che è stato poi anche riportato con i medesimi termini letterali all’interno del Codice delle comunicazioni elettroniche per effetto dell’istituzione nel 2021 del Codice “europeo”, provocando ulteriori difficoltà interpretative perché, affidando tale previsione di sconto anche ad una norma posteriore, a qualunque lettore poco attento potrebbe sembrare che le tariffe debbano essere scontate del 50% due volte.
Gli operatori di telecomunicazioni interessati, con distinti ricorsi proposti dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, hanno chiesto l’annullamento del decreto interministeriale, sostenendo che i compensi previsti non coprirebbero integralmente i costi sostenuti con altrettante distinte sentenze. Il 9 aprile 2019 il giudice ha respinto i ricorsi con la motivazione che non era dimostrato che le tariffe fissate dal decreto non fossero sufficienti a compensare i costi sostenuti dagli operatori per lo svolgimento delle operazioni di intercettazione, tenendo conto sia dell’evoluzione dei costi e dei progressi tecnologici che hanno reso talune prestazioni meno onerose. Questo tipo di posizione, purtroppo, ha mostrato solo una parziale conoscenza sia delle dinamiche dei costi relativi all’evoluzione tecnologia sia, soprattutto, dell’evoluzione normativa alla base delle intercettazioni: nel nostro paese si è passati da una condizione normativa, dove ogni operatore poteva garantire le operazioni tecniche di intercettazione secondo proprie modalità e secondo un proprio listino, poi mitigato da alcuni tariffari applicati da singole Procure della Repubblica, ad una condizione dove ogni operatore deve adeguarsi indipendentemente dalla tecnologia adottata e dal servizio erogato a standards internazionali stabiliti dall’ETSI e ad un unico listino, proprio in aderenza al suddetto decreto interministeriale. Laddove i gradi di libertà si riducono, i costi non diminuiscono ma aumentano.
Sulla questione pregiudiziale, così come sentenziato dalla Corte europea, si condivide il richiamo alla necessità di una normativa di riferimento che sia non discriminatoria, proporzionata e trasparente. A parer di chi scrive è questo lo snodo fondamentale, poiché appare discriminatoria e sproporzionata una normativa che imponga l’obbligo delle operazioni di intercettazione agli operatori che gestiscono reti e offrono servizi di comunicazioni in Italia ma non ai soggetti che offrono servizi agli utenti italiani come nel caso di WhatsApp, Telegram, ecc., obbligando di fatto le autorità a ricorrere in questi casi al tanto contestato captatore informatico, che in questi giorni viene analizzato durante le audizioni della Commissione giustizia del Senato, per poter acquisire i contenuti delle comunicazioni.
Il timore, in definitiva, è che se gli operatori di telecomunicazioni saranno obbligati a fornire alle autorità competenti operazioni d’intercettazione dietro pagamento di tariffe forfettarie, analogamente gli stessi operatori saranno autorizzati a fornire il risultato di tali operazioni in modo altrettanto forfettario sotto il profilo qualitativo.