Il carcere e le sue sindromi

di Cristina Colombo

“Se è vero che la prigione sanziona la delinquenza, questa, nell’essenziale, si fabbrica entro e attraverso una carcerazione che la prigione, alla fine del conto, rinnova a sua volta. La prigione non è che il seguito naturale, niente di più di un grado superiore di una gerarchia percorsa passo per passo. Il delinquente è un prodotto dell’istituzione. Inutile, di conseguenza, meravigliarsi che, in proporzione considerevole, la biografia dei condannati passi per tutti quei meccanismi e quelle istituzioni di cui si finge di credere che fossero destinati ad evitare la prigione.”[1]

[1] Foucault M., Surveiller et punir. Naissance de la prison, Paris, Traduzione di Alcesti Tarchetti, 1975.

 


Premessa

Queste le parole di Foucault, che introducono con forza il tema del carcere. Un argomento sempre attuale e complesso, che passa dalle problematiche temporali del luogo, come reclusorio, fino ad arrivare ai diritti e alle sindromi del prigioniero. Oggi, l’effetto della globalizzazione, della migrazione, l’aumento della criminalità e il bisogno di reagire ad essa in risposta alle esigenze di sicurezza sociale, hanno prodotto, tutte insieme, un alto tasso di densità carceraria. Si parla di “esuberanza numerica”, rispetto alla capienza regolamentata degli istituti penitenziari, per cui l’inevitabile conseguenza è la tangibile difficoltà di garantire i diritti fondamentali dei detenuti[1] e, non da ultimo, il supporto psicologico necessario in ambito carcerario per ovviare al radicamento di tutte quelle sindromi direttamente legate alla vita in carcere.[2]

Malgrado diversi tentativi, sia l’attuale sistema penitenziario italiano che quello internazionale palesano l’inadeguatezza della pena detentiva al perseguimento, in primis, dello scopo rieducativo ormai caratterizzato da una radicata struttura utopica.

La popolazione detenuta ha raggiunto, nel tempo, cifre senza precedenti nonostante già, nel 1998, la legge n. 165, la cosiddetta Riforma Simeone, denunciasse come il sovraffollamento carcerario condizioni gravemente l’intero sistema. Successivamente, ulteriori tentativi sono stati attuati con la legge 31 luglio 2006, n. 241[3] e dalla legge 26 novembre 2010, n.199, denominata “svuotacarceri”, volta a ridimensionare il numero dei detenuti. [4] Un’altra manovra di sfoltimento è datata 2014, legge n. 146, Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria, nata dalla necessità di restituire ai soggetti in regime detentivo la possibilità di un effettivo esercizio dei propri diritti fondamentali, pur sempre nel rispetto delle istanze di sicurezza della collettività.

A dire il vero, questa resistente condizione appesantisce finanche la situazione sanitaria all’interno del carcere, acuendo la diffusa preoccupazione alla luce del frequente disagio psichico e delle varie patologie psichiatriche di cui soffre un’ampia parte della popolazione detenuta.

La difficoltà di garantire la rieducazione e un luogo idoneo alla stessa appaiono, quindi, direttamente collegati al contenimento numerico dei detenuti per istituto e alla diffusione delle sindromi carcerarie.

Da questo punto di vista, occorre riconoscere alla sentenza Torreggianti – che ha condannato l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani[5]– il pregio di aver aperto un varco[6], consentendo l’infiltrazione nel nostro ordinamento della giurisprudenza europea in tema di art. 3 Cedu.[7]

Conferma l’importanza di tali principi anche il dettato dell’art. 27, 3° comma Cost. “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, chiara espressione di una lunghissima storia interpretativa che ha portato, nel tempo, a non pochi dibattiti giuridici, politici e culturali, di fatto aprendo la strada anche a criticate teorie  come quelle polifunzionali della pena caratterizzate da una ardita prospettiva congiunta: satisfattoria, general-preventiva e special preventiva.[8]

Ora, la pronuncia della Corte di Strasburgo, definita dagli stessi giudici “sentenza pilota”, ha affrontato il problema strutturale del disfunzionamento del sistema penitenziario italiano[9] ma, se dopo la sentenza qualcosa è migliorato, le persistenti e difficili condizioni, sommate allo shock subito dal carcerato, dovuto all’ingresso in una realtà completamente diversa da quella esterna, comportano ancora la comparsa di patologie, che, con il tempo, non fanno che peggiorarsi e, spesso, cronicizzarsi.[10]

Oggi, al di là della questione dello spazio minimo per detenuto, si sta sempre più consolidando l’idea – che trova le sue origini più profonde nell’indimenticabile Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria – secondo cui non può esistere rieducazione se la pena, per le modalità della sua esecuzione, viola i diritti fondamentali della persona. Si sta prendendo atto che un carcere, per tendere alla rieducazione, deve essere un luogo ove ricostruire il rapporto del soggetto recluso con la legalità.

Abbandonata, teoricamente, la concezione del carcere punitivo, basato su torture e umiliazioni, fondato sulla cosiddetta teoria retributiva, per cui “si punisce perché è giusto e non perché la pena sia utile in vista di una qualsivoglia finalità[11], il passaggio alla concezione rieducativa della pena detentiva, assunta dal carcere nel periodo illuminista, e posta al centro del trattamento detentivo per il graduale recupero e reinserimento nella società del detenuto, deve mantenere oggi salde le proprie basi.[12]

  1. Le fasi della vita detentiva

Il celebre sociologo Erving Goffman[13] ha individuato vari momenti della vita detentiva.[14] La fase iniziale, quando il detenuto si “scontra” con l’istituzione. Quella successiva di adattamento regressivo in cui il detenuto constata la propria impotenza contro il sistema: è di questi primi momenti la comparsa di possibili gravi atti autolesionistici anche a prescindere dalla pena inflitta o presunta. La terza fase dell’adattamento ideologico in cui il detenuto accetta, o finge di accettare, la condanna, adeguandosi alla disciplina carceraria, comportandosi da “detenuto modello”. Quindi, la fase dell’adattamento entusiastico, quando il detenuto accetta la realtà carceraria come unica possibile.

E’ in questa cornice che possiamo inquadrare quello che Gonin definisce il “martirio del corpo incarcerato”: lesioni da taglio multiple su varie parti del corpo, incisione di tatuaggi deturpanti, auto-amputazioni, l’ingestione di corpi estranei, sciopero della fame.[15] Comunque sia, forma di protesta o autentica richiesta di aiuto, il comportamento autolesionista – anche se a volte strumentale e manipolatorio, pensiamo al  parasuicidio[16] – è sicuramente un atto disperato finalizzato al “sentire di esistere”. [17]

Infine, la fase prossima alla scarcerazione, in cui alcuni soggetti vivono l’“estraniamento”.[18]  Quando i sentimenti d’inadeguatezza, rispetto al reinserimento sociale e alla ricostruzione di quel ruolo che si è dovuto sospendere per un po’ di tempo, raggiungono un insopportabile grado di angoscia, alcuni possono tentare il suicidio. In particolare, i soggetti anziani, senza famiglia e con scarse possibilità di reinserirsi nel tessuto lavorativo ed economico, vivono con sconforto la separazione dall’Istituzione, ormai percepita come luogo sicuro, mettendo in atto comportamenti tesi a rimandare la dimissione dalla stessa.

“Io dico che queste mura sono strane: prima le odi, poi ci fai l’abitudine, e se passa abbastanza tempo non riesci più a farne a meno: sei istituzionalizzato. È la tua vita che vogliono, ed è la tua vita che si prendono. La parte che conta almeno.”[19]

 

 

2.La vulnerabilità in carcere

Ora, se tra gli effetti peggiori del carcere si ritrova l’etichettamento del detenuto, attraverso quel marchio di criminalità che gli rimane spesso dopo l’espiazione della pena, la vita all’interno del reclusorio può arrivare ad aggravare anche la sua salute.[20] In particolare, la salute mentale, in quanto il detenuto è vittima di una maggiore vulnerabilità rispetto a quanto accade solitamente nella società libera.[21]

L’insorgenza di malattie mentali fra i carcerati è dovuta a varie cause, prima fra tutte la precarietà delle condizioni ambientali, la limitazione degli spazi personali, che aumenta all’aumentare del tasso di affollamento, l’inadeguatezza delle condizioni di igiene e infine, a seguire, ma non in ordine di importanza, il contagio criminale vissuto nelle ore all’esterno della cella. Il carcere ha, purtroppo, in sé elementi strutturali che favoriscono l’emergere di patologie psichiatriche, anche se spesso le condizioni psicofisiche di chi incappa nel sistema penitenziario sono precarie già prima del suo ingresso nel reclusorio, cosicché marginalità sociale e patologie, a volte prime cause scatenanti del reato compiuto, arrivano ad aggravarsi ulteriormente. [22]

E’, quindi, certo che uno dei momenti più critici per le persone detenute è quello dell’ingresso in istituto. Momento in cui si percepisce chiaramente la perdita del proprio ruolo sociale, in cui il soggetto viene privato degli effetti e degli affetti, di uno spazio personale, della capacità di decidere autonomamente. La persona detenuta vive rapporti sociali imposti e diventa dipendente dall’istituzione. [23]

 

2.1. Le sindromi penitenziarie

È, ormai, certo che per ogni soggetto alla prima detenzione, l’impatto con la struttura carceraria costituisce uno dei momenti più drammatici dell’esistenza. Si parla della “Sindrome da ingresso in carcere”, anche detta Sindrome di Gull, costituita da una serie di disturbi psichici e spesso psicosomatici.

Per questa ragione già nel 1987 con la circolare n° 3233/5689 è stato istituito il servizio psicologico “nuovi giunti” a supporto del neo-detenuto.[24]

In effetti, esistono vere e proprie forme psicopatologiche, che insorgono solo in regime di detenzione. Da una comune reazione ansioso-depressiva sino alla Sindrome ganseriana. Già nel 1898 Ganser[25] descriveva la sindrome, che poi prese il suo nome, riscontrata in alcuni pazienti che lamentavano l’incapacità di rispondere perfino a semplici domande[26]. Una forma reattiva alla carcerazione, un raro disturbo mentale, spesso presente in soggetti detenuti o in attesa di giudizio, che presentano un comportamento anomalo, accompagnato da allucinazioni visive e uditive. Si tratterebbe di una sintomatologia da collocarsi fra la simulazione e la reazione inconscia, anche se Ganser sostenne sempre l’assenza di simulazione per il trasparente vissuto emotivo dei soggetti. Di difficile trattamento intramurario questa sindrome, oggi inserita nel DSM IV-R come “Disturbo Dissociativo non altrimenti specificato”, si risolve al momento della rimozione della causa che l’ha prodotta; pertanto, i sintomi possono sparire d’improvviso quando il tribunale giunge ad un verdetto, anche se sfavorevole.[27]

Infine, non si dimentichino altre alterazioni sensoriali descritte da Clemmer come un processo di “erosione dell’individualità” [28] a vantaggio di un progressivo adattamento alla comunità carceraria.

In questi casi, accanto allo sviluppo della prisonizzazione – ovvero l’assunzione delle abitudini,[29] degli usi, dei costumi dell’istituzione, attraverso un processo di assimilazione di norme e valori da parte del detenuto[30] – nel rispetto delle esigenze di ordine e di controllo del reclusorio, si assiste però anche alla divulgazione, e alla conseguente acquisizione, di ideologie di tipo criminale. D’altra parte, è risaputo, in questo sistema sono pochi i detenuti che riescono a resistere alla “negatività” dell’ambiente, molti quelli che la subiscono.

 

[1] Dolcini E., La rieducazione del condannato: un’irrinunciabile utopia? Riflessioni sul carcere, relazione tenuta al Convegno processo penale e valori costituzionali nell’insegnamento, di V. Grevi, Pavia, 2011.

[2] Re L., Carcere e globalizzazione. Il boom penitenziario negli Stati Uniti e in Europa, Roma, 2010.

[3] Torrente G. Manconi L., La pena e i diritti, il carcere nella crisi italiana, Roma, I ed. 2015.

[4] Ariano C., L’ordinamento penitenziario italiano, storia ed evoluzione, Savona, 2018.

[5] Sentenza Torreggiani: Strasburgo condanna l’Italia, in giurisprudenza penale.com. Corte Europea dei diritti dell’uomo, Sez. II, Causa Torreggiani e altri c. Italia, 8 gennaio 2013 (Ricorsi nn. 43517/09, 46882/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/10 e 37818/10). Il caso, come è noto, riguardava trattamenti inumani o degradanti subiti dai ricorrenti, sette persone detenute per molti mesi nelle carceri di Busto Arsizio e di Piacenza, in celle triple e con meno di quattro metri quadrati a testa a disposizione.

[6] Tamburino G., La sentenza Torreggiani e altri della Corte di Strasburgo, in Cass. pen., 2013, p. 11.

[7] L’art. 3 proibisce la tortura e il trattamento o pena disumano o degradante. Il divieto di tortura e di trattamento inumano o degradante, sancito dall’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, costituisce uno dei traguardi più importanti delle società moderne.

[8] Fiandaca, G. Scopi della pena fra commisurazione edittale e commisurazione giudiziale in AA.VV., Diritto penale e giurisprudenza costituzionale, Cinquant’anni Corte Costit., a cura di Vassalli, Napoli, 2006, p. 135; Tribisonna F., Quanta umanità in tre metri quadrati? Indirizzi interpretativi circa i criteri di calcolo dello spazio vitale intramurario e problematica del bagno “a vista”, in processopenaleegiustizia.it, n.6, 2019.

[9] «La carcerazione – hanno affermato i giudici di Strasburgo – non fa perdere al detenuto il beneficio dei diritti sanciti dalla Convenzione. Al contrario, in alcuni casi, la persona incarcerata può avere bisogno di una maggiore tutela proprio per la vulnerabilità della sua situazione e per il fatto di trovarsi totalmente sotto la responsabilità dello Stato. In questo contesto, l’articolo 3 pone a carico delle autorità un obbligo positivo che consiste nell’assicurare che ogni prigioniero sia detenuto in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione della misura non sottopongano l’interessato ad uno stato di sconforto né ad una prova d’intensità che ecceda l’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione e che, tenuto conto delle esigenze pratiche della reclusione, la salute e il benessere del detenuto siano assicurati adeguatamente».

[10] Miravalle M., Un anno di Covid nelle carceri italiane, in ristretti.org.

[11] Fiandaca G., Di Chiara G., Una introduzione al sistema penale, Napoli, 2003.

[12] Sabatini G., Teoria delle prove nel diritto giudiziario penale, Parte prima, Catanzaro, 1909.

[13] Goffman E., Dal corpo al non corpo in una istituzione totale: il carcere – Foucault e Goffman, in rivistadiscienzesociali.it

[14] Goffman E., Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza, Torino, 2003.

[15] Gonin D., Il corpo incarcerato, Torino, 1994; Sykes G., The society of captives, Princeton, 1958.

[16] Baechler A., Les Suicides, Paris, 1989.

[17] Bruno F., Roli G. A., Costanzo S., “Il suicidio”, Criminologia dei reati omicidiari e del suicidio, Trattato di criminologia, medicina criminologica e psichiatria forense, vol. VII, Milano, 1988; Ferracuti F., Reati omicidari e suicidio, in Trattato di Criminologia, Medicina Criminologica e Psichiatria forense, Milano, 1989; Ponti G., Compendio di criminologia, Milano, 1999.

[18] Anastasia S., Metamorfosi penitenziarie. Carcere, pena e mutamento sociale, Roma, 2012.

[19] Tratto dal Film Le ali della libertà, 1994.

[20] Becker H.S., Outsiders, Studi di sociologia della devianza, Sesto San Giovanni, 2017; Sofri A., Il rapporto degli ispettori europei sullo stato delle carceri in Italia, Palermo, 1995.

[21] Serra C., Psicologia penitenziaria: sviluppo storico e contesti psicologico-sociali e clinici, Milano, 1999.

[22] Carlotto M., L’oscura immensità della morte, Roma, 2005.

[23] Nardi P., Simulazione e diagnosi, in AIPG newsletter, n.10, 2002.

[24] De Leo G., Lo psicologo criminologo, Milano, 1989.

[25] Ganser S.J.M. (Rhaunen24 gennaio 1853 – Dresda4 gennaio 1931) è stato uno psichiatra tedesco.

[26] Godfryd M., Ganser (sindrome di), in Dizionario di psicologia e psichiatria. 1ª ed., Roma, 1994.

[27] La Sindrome di Ganser non costituisce una condizione sufficiente ad integrare i requisiti richiesti dall’art. 275 c.p.p. 4 bis; Rizzoli M., Detenuti, Milano, 2012.

[28] Clemmer D., The Prison Community, Boston, 1941.

[29] Clemmer D., La comunità carceraria, in Carcere e società liberale, Torino, 1997.

[30] Piperno A., La prisonizzazione: teoria e ricerca, dal Trattato di criminologia, medicina criminologica e psichiatria forense, vol. XI, Milano, 1989.

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