L’USO DELLA PEC NEL PROCESSO PENALE AL VAGLIO DELLA CASSAZIONE

di Luigi Petrucci e Angelo Piraino

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L’uso della PEC nel processo penale è già stato oggetto di varie decisioni della Cassazione (dalla più recente):

 

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L’uso della PEC nel processo penale non è una novità dell’ultimo momento, essendo stato previsto già nel lontano 2009 con la riforma dell’art. 51, co. 1 e 2 d.l. 112/08, l. 133/08 ad opera del d.l. 193/09, l. 24/10. Come vedremo in questo breve articolo, tale uso è già stato oggetto di varie decisioni della Cassazione Penale.
La novità è, però, certamente l’entrata in vigore dell’art. 16 della legge n. 221/12 nel testo risultante dalla sola legge di conversione (il decreto legge n. 179/12 nulla prevedeva al riguardo), che ha inequivocabilmente fissato al 15.12.14 l’entrata in vigore delle notifiche telematiche “a persona diversa dall’imputato a norma degli articoli 148, comma 2-bis, 149, 150 e 151, comma 2, del codice di procedura penale nei procedimenti dinanzi a Tribunali e Corti di Appello” (co. 9, lett. c bis), ove tenuti ad istituire un indirizzo di PEC ovvero, principalmente, i professionisti iscritti ad un Albo e, dunque, anche gli avvocati (cfr. art. 16, co. 7, d.l. 185/08, l. 2/09, art 6 CAD). Prima della riforma solo gli Uffici giudiziari torinesi di primo grado erano stati autorizzati dal Ministero della Giustizia all’uso della PEC nel processo penale, come previsto dal regime dell’art. 51 cit.

Si tratta, dunque, di un altro pilastro che si aggiunge alla costruzione del Processo Penale Telematico, del quale fa già parte l’atto processuale informatico (per il quale si rinvia a “È VALIDO IL VERBALE DELLE OPERAZIONI D’INTERCETTAZIONE REDATTO UNICAMENTE IN FORMATO ELETTRONICO”, in questa Rivista n. 2/2014). Purtroppo, a differenza di ciò che sarebbe richiesto ad un pilastro di un edificio, non si tratta ancora di una costruzione molto solida. Il Legislatore (o, meglio, il Governo, perché si è trattato di un c.d. maxi-emendamento sul quale è stata posta la fiducia) non ha coordinato l’intervento modificativo con il testo complessivo dell’articolo e con quello che era stato fatto in precedenza (anche se poco).

Cass. Sez. 2, n. 32430 del 09/07/2014 – dep. 22/07/2014, Nedzvetskyi, Rv. 260243 ha, infatti, accolto il ricorso del difensore avverso la decisione del Tribunale della Libertà, che aveva dichiarato l’inammissibilità della richiesta perché tardiva. Il difensore aveva sostenuto che l’avviso di deposito notificato a mezzo PEC, generato dal sistema sperimentale in uso presso gli Uffici giudiziari torinesi non era idoneo a far decorrere il termine e la Cassazione lo ha seguito, affermando che la PEC di sistema può essere utilizzata solo dopo il 15.12.14, a mente di quanto testualmente previsto dal citato art. 16 d.l. 179/12, l. 221/12.
Anche se l’argomento non è speso dai Giudici di Legittimità, a sostegno della decisione adottata vale rilevare che per il processo civile il Legislatore aveva, invece, considerato e disciplinato il caso degli Uffici giudiziari già autorizzati all’uso della PEC. È, quindi, possibile sostenere che ubi lex voluit, dixit e che, nel caso delle notifiche a mezzo PEC nel processo penale, il Legislatore non volesse anticipare gli effetti della riforma per l’unico caso degli Uffici giudiziari torinesi. Fortunatamente per gli altri Uffici giudiziari (che pur avendo richiesto l’autorizzazione al Ministero, non l’hanno mai ottenuta), il difficile problema riguarda solo le notifiche a mezzo PEC effettuate dal Tribunale e dalla Procura di Torino fino al 15.12.14.

Riguarda tutti, invece, il novero degli Uffici giudiziari interessati dalla riforma, definito dal sintagma “procedimenti dinanzi ai Tribunali e Corti di Appello” e la connessa questione della necessità del decreto autorizzativo, certa per gli Uffici giudiziari esclusi dal sintagma e affermata comunque per tutti gli Uffici giudiziari dall’Ufficio del Massimario presso la Corte Suprema di Cassazione nella relazione n. 66/14.
L’opinione è che l’intento innovativo del Legislatore del 2012 fosse proprio quello di eliminare almeno per i procedimenti davanti ai Tribunali e Corti di Appello la necessità del decreto autorizzativo per l’uso della PEC nel processo penale, già prevista dall’art. 51, d.l. 112/08, l. 133/08 con la modifica effettuata dal d.l. 193/09, l. 24/10, come anticipato. È questa, del resto, la chiara posizione della circolare del 11.12.14, che ha ricompreso nel sintagma le Procure, valorizzando il termine “procedimenti” e l’inclusione dell’elenco dei casi in cui è possibile l’uso della PEC nel processo penale dell’art. 151, co. 2, c.p.p. che riguarda la notifica effettuata dalla segreteria del pubblico ministero.

Per la circolare (che certamente risulta vincolante per l’operato degli Uffici ministeriali preposti al rilascio del decreto autorizzativo) gli unici Uffici giudiziari che restano fuori dall’uso della PEC di sistema “in automatico” sono, dunque, la Cassazione e gli Uffici del Giudice di Pace (pacificamente), ma anche i Tribunali per i Minorenni ed i Tribunali di Sorveglianza (qui con qualche perplessità visto il tenore della disposizione che avrebbe potuto ricomprendere genericamente tutti i Tribunali).

Questa interpretazione, ancorché forse meno aderente al testo della disposizione, è l’unica che abbia un senso storico e sistematico. Il comma 10, infatti, si dovrebbe leggere in riferimento ai procedimenti per i quali il comma 9 non stabilisce una data certa e, precisamente, alla lett. a) i procedimenti civili, ad esempio, pendenti davanti al Giudice di Pace o al Tribunale per i Minorenni) ed alla lett. b) i procedimenti penali davanti agli altri Uffici giudiziari. Non può essere un caso, del resto, che solo la lett. d) del comma 9 (e non anche la lett. c bis) rinvii espressamente al comma 10. Viene logico pensare che, al netto dell’infelice uso della parola “procedimenti”, la distinzione sia fra Uffici giudiziari che seguono la disciplina della lett. c bis) e quelli che seguono la disciplina del combinato disposto del co. 9, lett. d) e comma 10.
Per la circolare la parola “procedimenti” comprende non solo i processi (in fase di indagine o meno), ma anche i procedimenti di prevenzione e quelli in sede di esecuzione.

In ogni caso la questione del decreto autorizzativo non sembra avere molto peso (e questo vale per tutti gli Uffici giudiziari), perché la stessa relazione del Massimario nota come sia stato lo stesso Legislatore a ritenere la notifica a mezzo PEC un mezzo tecnico idoneo e che, pertanto, nei casi e nei modi già previsti dagli artt. 148, co. 2 bis e 150 c.p.p. la comunicazione fatta a mezzo PEC poteva e potrà essere ritenuta valida in base al codice di rito.
In questa ottica all’interprete resta solo il problema di cosa fare quando l’atto non ha raggiunto il destinatario. La circolare sostanzialmente consiglia in ogni caso di ripetere la notifica nelle forme ordinarie: in attesa di tempi migliori, si può dire che l’effetto della riforma legislativa sia quello di una sperimentazione obbligatoria, con valore legale solo in caso di notifica positiva.

Oltre alla sentenza citata, va ricordata la recente Cass. Sez. 6, n. 6712 del 28/01/2015 – dep. 16-02-2015, che ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto dal P.M. di Marsala avverso la decisione del Tribunale, che aveva dichiarato la nullità della citazione diretta a giudizio per omessa notifica dell’avviso di conclusione delle indagini, in quanto notificato a mezzo PEC dalla Polizia Giudiziaria. La decisione non affronta direttamente il problema posto dalla Procura marsalese, poiché si limita a rilevare che la regressione non costituisce un atto abnorme, nel caso di specie. Fra le righe può leggersi, forse, una certa perplessità dei giudici di legittimità sulla procedimento seguito dalla Polizia Giudiziaria, poiché afferma testualmente: “Nel caso, anche voler seguire pedissequamente la prospettazione del ricorso in punto alla erroneità in diritto del riscontrato vizio di notifica quanto all’avviso ex art. 415 bis cod. proc. pen. deve comunque rilevarsi che la (eventuale) indebita regressione porta a conseguenze certamente rimediabili con attività propulsive legittime potendo il P.M. disporre la rinnovazione della notificazione del predetto avviso senza trovarsi costretto a porre in essere alcuna iniziativa processuale altrimenti radicalmente inficiata da invalidità”. A parte la precisazione fra parentesi, già indicativa della mens del relatore, il prosieguo del ragionamento è un chiaro invito a ripetere la notifica nelle forme ordinarie e non attraverso la notifica a mezzo PEC da parte della Polizia Giudiziaria, che espone il procedimento ad un nuovo regresso, ma attraverso la rinnovazione delle notifiche nelle forme ordinarie.
Gli altri casi affrontano istanze trasmesse dai difensori con posta elettronica o PEC, che invece offrono molti spunti per considerare tali mezzi di comunicazione strumenti tecnici idonei.

Una prima apertura alle nuove tecnologie si può vedere in Cass. Sez. 2, n. 28943 del 12/06/2014 – dep. 3/07/2014 (non massimata), con la quale era accolto il ricorso del ricorrente contro la decisione della Corte di Appello di Bologna, che aveva ritenuto come unica data certa quella apposta sul timbro postale. Secondo il Supremo Collegio data certa doveva essere considerata anche la data di spedizione risultante dal cedolino postale o ricevuta di spedizione telematica, che attestava che la raccomandata con l’atto di appello era stata spedita, in via telematica, il giorno precedente e, quindi, nei termini. Il giudice di merito non aveva, dunque, considerato che il mezzo utilizzato “era chiaramente una raccomandata postale ancorché evolutasi, peraltro già a far data dal 2003, con servizio on line”. In senso contrario si era, invece, espressa precedentemente Cass. Sez. 3, n. 7337 del 31/01/2014 – dep. 17/02/2014, Fazi, Rv. 259630, ad onor del vero neppure citata dalla successiva.

Non sembra essere destinata a divenire un precedente Cass. Sez. 3 n. 7058 del 11/02/2014 – dep. 13/02/2014, Vacante, Rv. 258443, che invece rigettava il ricorso del difensore, che aveva presentato un’istanza di rinvio per concomitante impedimento professionale a mezzo posta elettronica. I Giudici di legittimità sostenevano, infatti, che la posta elettronica non è mezzo tecnico previsto per le comunicazione dalle parti verso gli Uffici giudiziari, analogamente a quanto accade per il fax.

Dopo questa decisione è stata pubblicata Cass. Sez. 2, n. 47427 del 07/11/2014 – dep. 18/11/2014, Pigionanti, Rv. 260963, secondo cui “La richiesta di rinvio dell’udienza per legittimo impedimento del difensore, inviata a mezzo posta elettronica in cancelleria, non è irricevibile né inammissibile, anche se l’utilizzo di tale irregolare modalità di trasmissione comporta l’onere, per la parte che intenda dolersi in sede di impugnazione dell’omesso esame della sua istanza, di accertarsi del regolare arrivo della mail in cancelleria e della sua tempestiva sottoposizione all’attenzione del giudice procedente” (così la massima ufficiale, in senso analogo già prima Cass. Sez. 2, n. 37037 del 29/09/2011 – dep. 14/10/2011, Bosco, Rv. 251469).

Nello stesso senso va richiamata la più autorevole Cass. Sez. U, n. 40187 del 27/03/2014 – dep. 29/09/2014, Lattanzio, Rv. 259928 che, componendo i diversi orientamenti sull’uso del fax da parte dei difensori, lo ha consentito per comunicare la dichiarazione di astensione dalle udienze.
In motivazione si afferma che tale soluzione è dovuta ad una “interpretazione sistematica meno legata a risalenti schemi formalistici e più rispondente alla evoluzione del sistema delle comunicazioni e notifiche (cfr. art. 148, comma 2-bis, cod. proc. pen.; art. 4 d.l. 29 dicembre 2009, n. 193, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 febbraio 2010, n. 24) nonché alle esigenze di semplificazione e celerità richieste dal principio della ragionevole durata del processo. E’ altresì significativa l’evoluzione delle forme di comunicazione e notificazione (anche a mezzo di posta elettronica certificata) previste nel processo civile, pur se ritenute non estensibili al processo penale (Sez. 3, n. 7058 del 11/02/2014, Vacante, Rv. 258443).
Del resto, quanto alla esigenza di autenticità della provenienza e della ricezione di questa forma di comunicazione, le Sezioni Unite hanno già rilevato – a proposito dell’art. 148, comma 2-bis, cod. proc. pen. – che il telefax è «uno strumento tecnico che dà assicurazioni in ordine alla ricezione dell’atto da parte del destinatario, attestata dallo stesso apparecchio di trasmissione mediante il cosiddetto “OK” o altro simbolo equivalente» (Sez. U, n. 28451 del 28/04/2011, Pedicone, Rv. 250121), specificando anche che «la mancata individuazione, in sede normativa, dei mezzi tecnici idonei ad assicurare la effettiva conoscenza dell’atto […] è evidentemente legata all’esigenza di non rendere necessario il continuo aggiornamento legislativo degli strumenti utilizzabili, né in qualche modo obbligatorio il loro utilizzo, tenuto conto della evoluzione scientifica e dell’effettivo grado di diffusione di nuovi mezzi tecnici di trasmissione». Inoltre, le indicazioni automaticamente impresse sul documento ricevuto dall’ufficio sono idonee ad assicurare l’autenticità della provenienza dal difensore (peraltro facilmente controllabile dall’ufficio in caso di dubbio); e la norma vigente consente che la dichiarazione sia fatta anche tramite sostituto, senza speciali formalità.”

È appena il caso di sottolineare come la PEC offra la medesime certezze della raccomandata in ordine all’identificazione del mittente (v. art. 48 CAD) e che, addirittura, anche l’uso della posta elettronica potrebbe soddisfare i requisiti fissati dall’art. 45 CAD per le comunicazioni verso Pubbliche Amministrazioni.
Piuttosto il tema più spinoso è l’identificazione del destinatario, pure preso in considerazione dalle Sezioni Unite, che ritengono, sempre in motivazione, necessaria la comunicazione “…ad un numero di fax della cancelleria del giudice o della segreteria del pubblico ministero procedenti, e non a qualsiasi numero di fax dell’ufficio giudiziario”.

Attualmente non esiste un indirizzo PEC della singola cancelleria o segreteria, ma solo un unico indirizzo PEC per singolo Ufficio appartenente all’unico dominio nazionale (per il penale penale.ptel.giustiziacert.it) e le PEC generate dal sistema in uso agli Uffici giudiziari raccomandano di indirizzarvi alcuna PEC. Gli Uffici giudiziari sono dotati almeno di due indirizzi di PEC (con diverso dominio nome_ufficio@giustiziacert.it) in quanto Pubbliche Amministrazioni (uno per la Presidenza, uno per la Dirigenza Amministrativa: di fatto molti Uffici giudiziari hanno istituito più indirizzi per i più diversi scopi, alcuni anche per le comunicazioni dei difensori nel processo penale), ma il d.m. 44/11 che regola il processo telematico prevede che le comunicazioni all’interno del dominio giustizia avvengano solo attraverso il gestore della PEC, con le modalità fissate dagli artt. 13 d.m. cit., 4 e 14 del Provvedimento del Responsabile dei Servizi Informativi Automatizzati, previsto dall’art. 34 del d.m. cit.

Il disegno normativo del d.m. cit. è volto a descrivere il funzionamento del “dominio giustizia” e prevede che la comunicazione fra i “soggetti abilitati interni” avvenga tramite applicativi forniti dal Ministero della Giustizia e quella con i “soggetti abilitati esterni” avvenga mediante indirizzi di PEC ufficiali.
Il difensore mittente dovrà, pertanto, utilizzare l’indirizzo censito dal REGINDE (cfr. art. 13, co. 1, d.m. cit.: l’art. 4, co. 2, del Provvedimento stabilisce, infatti, che il sistema giustizia accetti solo messaggi spediti con PEC e non quelli spediti con posta elettronica) e che l’indirizzo del destinatario sia quello fissato dal Provvedimento SIA ovvero, a mente dell’art. 4, co. 5, quello appartenente al sotto-dominio penale.ptel.giustiziacert.it
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Si tratta di previsioni tecniche di buon senso, perché consentono al Ministero di predisporre degli applicativi che controllano le PEC in ingresso (ad es. avvisando il difensore non censito nel processo al quale sta mandando la PEC) e le smistano modo automatizzato all’interno del fascicolo informatico (v. art. 9 d.m. 44/11 ed art. 11 Provvedimento SIA), per la successiva consultazione da parte del Magistrato e del Personale giudiziario, quasi sempre tenuti a degli adempimenti conseguenti di carattere processuale.
Attualmente questo applicativo per il processo penale non è stato ancora disposto e, dunque, l’invio di istanze a mezzo PEC da parte dei difensori pone il problema di accertare se e quando l’istanza sia venuta a conoscenza del Magistrato, con il rischio che l’onere imposto da Cass. n. 47427/14 diventi una probatio diabolica.

Non è questa la sede per discutere del valore cogente del d.m. 44/11 e, a maggior ragione del Provvedimento SIA, a fronte di disposizioni di rango primario, come quelle del CAD. Pur consapevole della vivace opinione contraria di Giuseppe CAPUTO (v. da ultimo OSSERVAZIONI A CASS. PEN., 11 FEBBRAIO 2014, SEZ. III, N. 7058, in Cassazione Penale, fasc.07-08, 2014, pag. 2566), ci si limita ad osservare che le disposizioni del CAD si applicano in toto solo alle Pubbliche Amministrazioni (cfr. art. 2 CAD) e che solo i principi del CAD si applicano al diritto processuale penale e civile (cfr. art. 4 d.l. 193/09, l. 24/10).

Come nel caso del verbale redatto solo in modo informatico, sarebbe il caso che la Suprema Corte considerasse più nel dettaglio la corposa normativa di settore, in modo da offrire agli operatori delle linee guida più sicura di fronte alle innovazione tecnologiche che, oltre ad aver ormai completamente invaso la quotidianità di ogni cittadino, fanno ormai parte del diritto vivente. ©


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