Caso Marò: una questione di stato … di diritto

di Monica Capizzano

È il 15 febbraio del 2012, ore 15 della nave. La petroliera italiana Enrica Lexie, che viaggia a 14 nodi di velocità, direzione 330°, è entrata in acque ritenute a rischio di pirateria. L’area rientra infatti in una delle zone ad alto rischio pirateria, individuata già nel 2011 dall‘International Transport Workers Federation (ITF) nel tratto che va dalle coste somale verso est, sino al meridiano 76 e verso sud al parallelo 16, e quindi in acque internazionali direttamente confinanti con le acque territoriali indiane. In queste zone i mercantili sono invitati ad adottare le misure di autoprotezione raccomandate dall’IMO (International Maritime Organization); i marittimi imbarcati percepiscono un raddoppio delle indennità giornaliere e gli armatori pagano premi di assicurazione maggiorati.
A bordo ci sono 34 persone, tra cui sei marò col compito di proteggere l’imbarcazione da possibili attacchi di pirati.
Alle 15,45 circa il comandante Carlo Noviello nota un puntino nello schermo radar. Guarda con il binocolo e a circa a 2,8 NM (miglia nautiche) di distanza vede quella che sembra un’imbarcazione da pesca. Si dirà poi che si trattava della St Antony, un peschereccio con 11 indiani a bordo.
Nonostante la Enrica Lexie prende velocità per allontanarsi, l’imbarcazione prosegue il suo avvicinamento. Tanto che, il personale militare della Enrica Lexie spara alcuni colpi in acqua per dissuadere le persone a bordo dell’imbarcazione a ridurre le distanze. I colpi in acqua sono sparati a una distanza di 500, 300 e 100 metri dall’imbarcazione, la quale si allontana e, secondo le testimonianze dei militari della Enrica Lexie, il natante era di colore blu e lungo circa 12 metri.
Nessuno, a dire dei militari, è stato colpito.
Umberto Vitelli, comandante della Enrica Lexie, avverte la società armatrice di Napoli nelle persone dei Fratelli D’amato, i quali hanno provveduto a informare la magistratura italiana perché la Enrica Lexie si sta muovendo in acque internazionali.
Intorno alle 18:20, ore locali, la Enrica Lexie è contattata dal comando della Guardia Costiera indiana a Mumbaym con la richiesta di rientrare nel porto di Kochi in quanto, dopo aver ricevuto la notizia di un’aggressione, ha arrestato dei pescatori armati e vuole identificare gli autori del reato.
A questo punto la Enrica Lexie consulta il Ministro della Difesa e degli Esteri e, su decisione dell’armatore, inverte la rotta alle 19.15 ore locali per arrivare nel porto di Kochi alle ore 23 circa.
Il 18 febbraio, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i due militari del reggimento San Marco che hanno aperto il fuoco, sono arrestati con l’accusa di omicidio nei confronti dei due marinai del peschereccio indiano “St. Antony”, Celestine (o Jelestine) Valentine and Ajesh Binki (o Binku).

 


«Ho visto Latorre fare segnali luminosi mentre Girone monitorava il bersaglio con il binocolo. Quando le sue azioni non hanno prodotto risultati, Latorre mi ha ordinato di attivare il resto del nucleo. Ho usato la radio Vhf per chiamare gli altri e sono corso nella cabina a prendere le mie armi», si leggerà nella deposizione di un Marò.

«L’equipaggio della St Antony era in navigazione da giorni e tutti, eccetto i pescatori Valentine Jelestine e Ajeesh Pink, stavano dormendo sul ponte. Jelastine era al timone», si legge nel Rapporto ad interim della polizia del Kerala.

«Girone identifica tramite binocolo, la presenza di persone armate a bordo del motopesca. In particolare si accorge che almeno due dei membri dell’equipaggio sono dotati di armamento a canna lunga portato a tracolla», riporta l’”Inchiesta Sommaria” condotta dall’ammiraglio Alessandro Piroli, capo del terzo reparto della Marina.
Diversa la testimonianza del comandante Vitelli: «Ho mandato un’email al Centro di soccorso marittimo italiano alle 17,47 ora della nave».
Le autorità del Kerala, dopo aver contato, una per una, più di 10.000 cartucce trovate a bordo della Lexie, hanno appurato che mancavano 20 proiettili di calibro 5,56 dai fucili mitragliatori Beretta in dotazione ai Marò italiani. Attraverso la perizia balistica hanno poi accertato che il calibro dei proiettili sparati contro il peschereccio e i due indiani era esattamente lo stesso, 5.56. E che le loro caratteristiche erano quelle tipiche delle munizioni Nato usate nei fucili Beretta. A essere contestate dagli esperti italiani sono le conclusioni successive della perizia balistica. Gli indiani hanno infatti concluso che Jelestine e Binki sono stati uccisi da pallottole sparate da due fucili diversi. Non solo: che quei fucili non erano in dotazione ai Marò accusati, Latorre e Girone, bensì a due loro commilitoni.
La metodologia usata dagli indiani per la perizia balistica è stata criticata poiché, sebbene abbiano utilizzato microscopi comparatori della Leika di un modello un po’ più vecchio ma non troppo dissimile da quelli italiani, hanno lavorato a un livello di ingrandimento insufficiente. Altresì, l’esame è stato approntato da un perito giovane, senza aiuto e senza includere alcuna foto. Le traiettorie dei colpi, oltre che le testimonianze, indicano infatti che la distanza tra i due mezzi era di almeno 200 metri. E poiché i fucili Beretta non erano dotati di cannocchiali, vuol dire che i fucilieri non erano in grado di prendere la mira.

A quasi due anni di distanza, l’azione del governo italiano e del Ministero degli Esteri si è immediatamente attivata con la presenza in India del sottosegretario De Mistura ed è stata continua e incessante. La linea sostenuta con fermezza dall’Italia è che l’episodio incriminato sia avvenuto in acque internazionali, dove vige il diritto dello Stato la cui nave batte bandiera, e che i due Marò in quel momento stessero esercitando funzioni di militari in missione all’estero e che dunque agissero per conto dello Stato italiano; in tale veste essi godono dell’immunità della giurisdizione rispetto agli Stati stranieri. D’altra parte, lo Stato del Kerala ha da subito considerato il fatto di propria competenza, in quanto i due pescatori uccisi erano di nazionalità indiana; ed il governo centrale, soggiogato dal potere politico, ha avuto uno strettissimo margine di manovra.

La diplomazia italiana si è sempre mossa a difesa della cooperazione internazionale: se l’episodio si risolvesse a sfavore dell’Italia, questo costituirebbe un pericoloso precedente per le missioni antipirateria. Ferma su questo punto, l’Italia non ha mai nascosto di cercare stati alleati per far pressione in questo senso sull’India.
La chiusura delle indagini era bloccata anche dal fatto che la polizia investigativa NIA riteneva fondamentale prima di presentare il risultato del suo lavoro al giudice interrogare gli altri quattro Marò che formavano con La Torre e Girone il team di sicurezza sulla Enrica Lexie. Di fronte all’impossibilità di disporre dei quattro a New Delhi per l’opposizione del governo italiano, l’interrogatorio è avvenuto in videoconferenza l’11 novembre. I quattro fucilieri – Renato Voglino, Massimo Andronico, Antonio Fontana e Alessandro Conte – sono giunti all’ambasciata indiana di via XX Settembre alle 9 circa, accompagnati dall’inviato del governo italiano per il caso dei Marò, Staffan De Mistura, e dall’avvocato dello Stato che segue i legali indiani di Latorre e Girone, Carlo Sica. Ad attenderli, in collegamento da New Delhi, c’era la National Investigation Agency. I quattro, ascoltati separatamente alla mera presenza di un traduttore, «hanno detto tutto quello che sapevano» anche perché, essendo interrogati «in qualità di persone informate dei fatti e, potenzialmente, futuri testimoni non potevano rifiutarsi».

La Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare del 1982 ratificata, tra gli altri, dall’Italia e dalla stessa India, recita che in caso di incidenti nel mare internazionale spetta allo Stato di cui la nave batte bandiera esercitare la giurisdizione. Questo vuol dire che nel caso della Enrica Lexie la competenza a iniziare azioni penali o disciplinari è unicamente delle autorità italiane visto che, come sembra, i fatti sono avvenuti nel mare internazionale. L’intervento dei due militari del battaglione San Marco nei confronti del peschereccio indiano sospettato di pirateria è avvenuto al di là del mare territoriale, al largo delle coste di Kerala, nel mare internazionale. Qui, per fissare regole certe sulla competenza, la Convenzione di Montego Bay ha stabilito che la giurisdizione, proprio per evitare l’insorgere di controversie tra Stati sull’attribuzione della competenza, debba essere affidata allo Stato di cui la nave batte bandiera. In questo caso l’Italia. Non solo. L’articolo 97 della Convenzione stabilisce che il fermo o il sequestro della nave non possono essere disposti da nessuna autorità che non sia lo Stato di bandiera che ne ha la giurisdizione esclusiva.
Altresì, i due militari che operavano a bordo della Enrica Lexie hanno agito in base alla legge n. 130 del 2 agosto 2011, adottata dal Parlamento per dare esecuzione alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Sono state le Nazioni Unite a chiedere agli Stati l’adozione di misure più efficaci per combattere la pirateria che prolifera nelle acque al largo dell’India e della Somalia. I militari, inviati a bordo di una nave privata per garantirne la sicurezza, agiscono in base al diritto internazionale, nel pieno rispetto del codice penale militare di pace, ricevendo ordini non dal comandante della nave privata, ma dai vertici militari. È il comandante del nucleo ad avere la piena responsabilità delle operazioni condotte per contrastare la pirateria. Gli atti dei due militari, quindi, sono imputabili allo Stato che, al massimo, ne potrebbe essere chiamato a rispondere con un risarcimento dei danni se si dimostrasse un’illiceità del comportamento. La stessa Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare prevede che, in caso di interventi motivati da un sospetto di pirateria che poi risulta infondato, lo Stato sia responsabile unicamente per i danni e le perdite provocate.

Sotto il profilo processuale, non bisogna dimenticare i fatti più importanti:

L’unico elemento di rilievo tecnico è la perizia balistica ad opera di un consulente indiano. La decisione del Tribunale di Kollam del 29/02/2012 di non ammettere alla perizia balistica i due esperti nominati dalla difesa, invaliderebbe la stessa in qualsiasi tribunale di uno Stato di Diritto. La perizia balistica è giuridicamente nulla e andrebbe rifatta, ma ad oggi non esistono gli elementi per poterla rifare. Poi, il referto dell’autopsia delle salme eseguita in India il giorno 16/02 ed esaminato per le vie brevi da un giornalista italiano indica la repertazione di un proiettile con misure totalmente incompatibili a quelli in dotazione ed usati dai due imputati. Calibro 7.62mm quello repertato, calibro 5.56mm quelli in dotazione ai militari italiani a bordo della Enrica Lexie. Infine, i numeri di matricola dei fucili sequestrati dalle autorità indiane da cui si dichiara siano usciti i proiettili che hanno colpito il peschereccio e ucciso le due vittime non sono quelli in dotazione ai due imputati.

Dopo due anni dall’incidente, l’accusa dispone delle registrazioni radar le quali permetterebbero di vedere, quello che è accaduto con buona precisione, ma queste registrazioni non sono state mai “tirate fuori” da dove sono “conservate”. Uno Stato di Diritto, benché la locuzione in termini internazionalistici non esiste, mantiene saldi alcuni principi fondamentali anche se traslato in contesti culturali diversi e il principio del rispetto dei diritti dell’uomo ne fa da collante. Tutti questi elementi dovrebbero portare a chiedere una commissione di controllo internazionale su questo processo. ©

 


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